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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2011 alle ore 08:23.

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Il Grand Guignol s'installa quotidianamente nei talk show televisivi. Morbidi divani o sgabelli verticali per busti eretti. Ma sfugge, nel complesso, che continuano inesorabilmente a scendere i numeri dei morti ammazzati. Veniamo resi edotti dei risultati autoptici di orrendi fattacci di sangue, consumiamo cronaca nera (e spesso grottesche "diagnosi" di criminal profiler, preferibilmente dalle biondissime chiome e da adeguati tacchi a spillo). Ma il dato del 2010 segna ancora un record. All'inverso: è il più basso della storia delle statistiche giudiziarie nazionali, 526 casi di omicidi volontari, 60 in meno del periodo precedente. Vedremo il consuntivo del 2011, e se l'andamento dovesse proseguire, potremmo dire che il 150° anniversario dell'Unità d'Italia è stato l'anno meno cruento dalla sua proclamazione.

Però c'è uno strano destino nella storia della paura del delitto. Se sulle questioni di Caino, il marketing del giallo tv guadagna ulteriori segmenti di pubblico, nella realtà gli italiani, compresi i neoitaliani, hanno imparato a raffreddare le fantasie di uccisioni. Ce ne ricordiamo poco o niente affatto. Eppure noi, uomini del XXI secolo, siamo molto meno assassini dei nostri antenati. L'Italia delle concentrazioni urbane è meno "a mano armata" dell'Italietta bucolica del primo Novecento.

Se vi fosse razionalità, nell'approccio e nella critica, avremmo capito che di serial killer e di folk devil siamo scarsi, qui sulla penisola (l'ultimo risale al 1998). E che forse le piccole storie ignobili di provincia andrebbero lasciate ai bravi, vecchi investigatori. Con l'aiuto, oggi, di ultraprofessionisti della polizia scientifica risolverebbero assai più spesso i casi di sordidi omicidi. E chissà quanti abbagli si eviterebbero, com'è accaduto con le ricerche dei due fratellini di Gravina nel 2008. Nessuno ha chiamato un geologo, o un urbanista esperto di quell'insediamento, metà rupestre e metà per volumetrie aggiunte. Hanno preferito improbabili scrutatori delle criminal mind e una missione in Romania, tra le tribù zingare che, è risaputo, rapiscono i bambini. Troppo "semplice" appariva cercare dietro il muretto di quel convento abbandonato. Molta teatralità e scarsi riscontri per l'Italia che la sera cena con «Chi l'ha visto», e prende il caffè con «Storie scellerate» e «Quarto grado». E poi si placa sui bianchi divani dell'ultimo salotto di mezzanotte.

Se poi si volesse scavare in quel dato della violenza omicidiaria, si tornerebbe al disordine delle nostre città, all'insofferenza che lievita nei corridoi del metrò e nei grandi caseggiati. Perché quel numero di omicidi, compiuta la sottrazione di violenze irreparabili dietro le mura domestiche, di aggressioni improvvise dopo una lite al semaforo, dopo un diverbio al capolinea dei bus, per una contesa all'ultimo sangue di un parcheggio, e altre "futilità" simili, lascerebbe ben poca materia per la "letteratura" narrativa del crimine in diretta.

Per riattribuire, invece, molto lavoro (e responsabilità) a chi provvede alla sicurezza del quotidiano: prevenendo e perseguendo furti e rapine, interponendosi nei conflitti dei nostri quartieri trasandati, nelle insolenze ai passanti sulle strade del centro storico, quando si spengono le insegne dell'ultimo caffè. O quando nei casermoni di periferia, liti domestiche, latrare di cani e scuotere di altoparlanti con musica techno a pieno volume spingono le persone a oscillare tra la rassegnazione e la rabbia incontrollabile. Fino al gesto inconsulto. Che resterà tra le brevi di cronaca.

Anche i dati presentati in questa pagina, inediti, ci ripropongono la sicurezza urbana, l'ordine nella città, e la convivenza civile come traguardo di un sistema predisposto dallo Stato. Che nulla toglie all'eccellente lavoro di investigatori che, contemporaneamente a tutto questo, si occupano di mafia, di terrorismo e, perché no, degli "insospettabili" che uccidono vittime con premeditazione.

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