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Questo articolo è stato pubblicato il 09 novembre 2011 alle ore 08:11.

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Il punto centrale della denuncia presentata dall'Aidc (Associazione italiana dottori commercialisti) alla Commissione Ue sulla normativa italiana relativa all'esterovestizione verte sull'illegittimità dell'inversione dell'onere della prova posto a totale carico del contribuente. La norma antiabuso, infatti, nella sostanza, introduce una predeterminata presunzione generale di evasione o di frode fiscale.

La commissione Aidc, sulla base della giurisprudenza della Corte di giustizia, ritiene una restrizione della libertà di stabilimento una norma interna che, di fatto, può indurre nella rinuncia all'acquisizione, alla creazione o al mantenimento di una consociata in un altro Stato membro, in presenza di grave lesione del principio di proporzionalità quale l'inversione dell'onere della prova.
In seguito alla denuncia, la Commissione europea, ha attivato la procedura Ue-Pilot e ha interpellato le autorità italiane che ‐ protocollo agenzia delle Entrate n. 2010/39678 e protocollo 2010/157346 ‐ hanno risposto a varie domande. In seguito alle risposte la Commissione Ue ha deciso di archiviare il caso poiché appare conforme al principio di proporzionalità la dichiarazione fatta dalle autorità italiane che l'amministrazione finanziaria non è comunque esonerata dal provare l'effettività dell'esterovestizione per cui «la presunzione di residenza (è) fondata essenzialmente su una valutazione caso per caso da parte degli enti verificatori del complesso degli elementi fattuali di ogni singola fattispecie senza limitare la possibilità del contribuente di fornire elementi in senso contrario».

In ogni caso le risposte dell'Agenzia segnano una linea di confine di un procedimento rispettoso del contradditorio e delle prove richieste al contribuente. Il superamento di questi paletti produce una lesione del principio di proporzionalità, così da rendere l'accertamento viziato in radice proprio in virtù del Trattato sul funzionamento della Ue sulla libertà di stabilimento, consentendo al contribuente di ricorrere, tramite la commissione tributaria, alla Corte di giustizia per chiedere di sancire l'illegittimità dell'operato dell'amministrazione e, quindi, della norma.
L'Agenzia specifica che la presunzione dell'articolo 73, commi 5 bis, ter e quater facilita il compito del verificatore nell'accertamento degli elementi di fatto per la determinazione della residenza effettiva della società, «ma non lo esonera dal provare in concreto l'effettività dell'esterovestizione». Secondo l'Agenzia le norme «costituiscono solo il punto di partenza per una verifica più ampia, da effettuarsi in contraddittorio con l'amministrazione finanziaria, sull'intensità del legame tra la società e lo Stato estero e tra la medesima società e l'Italia».

Dunque, le fattispecie al verificarsi delle quali la società estera si considera 'esterovestita' e, pertanto, fiscalmente residente in Italia, assurgono a meri elementi indiziari, che depotenziano la presunzione legale insita nella norma. L'Agenzia precisa che al fine di «fondare la residenza effettiva di un soggetto estero in Italia, i relativi riscontri degli organi verificatori devono basarsi su un'analisi complessiva della situazione di fatto dell'impresa, non limitata da una valutazione acritica fondata soltanto su dette presunzioni».
Quanto agli elementi di prova che la società Ue può addurre a dimostrazione della propria residenza estera, l'amministrazione spiega che al contribuente è lasciata possibilità di dotarsi degli elementi più idonei per dimostrare che, di fatto, la società è amministrata al di fuori dal territorio italiano.

Per l'Agenzia, dunque, la presunzione contenuta nella disposizione «non limita in alcun modo il contenuto della prova contraria a carico del contribuente, né ne rende l'esercizio particolarmente difficoltoso».
Ne discende che la valutazione dell'amministrazione dovrà essere basata su valutazioni 'caso per caso' sempre secondo canoni di contradditorio improntati sul principio di parità.
Un ultimo punto: il rilascio da parte dello Stato membro in cui risiede la società di un certificato attestante la residenza fiscale e/o l'assoggettabilità a imposizione in tale Stato per l'Agenzia rileva «significativamente ai fini della prova dell'insussistenza di un attendibile collegamento con l'Italia. Tuttavia, si tratta di una prova necessaria e valida, ma non sufficiente a rigettare la presunzione in questione».

Questo resta un punto delicato, tenuto conto dei principi di cooperazione e di fiducia reciproca che dovrebbero ricorrere tra le amministrazioni tributarie degli Stati membri. Tuttavia, tra le risposte dell'autorità italiana è interessante l'affermazione che laddove vengano ravvisati gli elementi riconducibili alla presunzione che l'entità sia di fatto amministrata in Italia «viene di prassi attivata l'assistenza amministrativa con gli Stati membri». Ne discende che l'attivazione della procedura prevista dalla direttiva 77/799/Cee, più che una prassi, appare un passaggio obbligato per l'autorità fiscale, i cui risultati, in caso di contenzioso, dovranno essere esibiti e messi a disposizione del contribuente per preservare il principio del contraddittorio.

Commissione compatibilità comunitaria di leggi e prassi fiscali italiane - Aidc Milano

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