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Questo articolo è stato pubblicato il 05 febbraio 2012 alle ore 08:13.

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A dispetto del nome convenzionalmente dato, il Codice antimafia (decreto legislativo 159 del 6 settembre 2011), da pochi mesi in vigore, è soprattutto il codice delle misure di prevenzione, nella speranza di riordino di una materia nobile negli scopi, confusa nella prassi. Le misure di prevenzione, nel linguaggio ricercato degli addetti ai lavori, sono definite ante o praeter delictum, cioè indipendenti dalla commissione di un reato.
Risalenti alla metà dell'800, rappresentano il tentativo di controllare fasce sociali border-line mediante limitazioni personali e in funzione preventiva e deterrente di probabili, future occasioni di reato. Acquisendo nel tempo maggiore incisività, estensione dell'ambito applicativo, infine diventando il vessillo della lotta alla mafia.
Il processo descritto ha gemmato un parallelo rafforzamento, a livello normativo, delle garanzie necessarie all'instaurazione e alla gestione del procedimento di prevenzione, che ha finito per acuire la sorprendente ambiguità e in definitiva contraddittorietà logica da cui è afflitta l'area della prevenzione.
Mi spiego meglio. Le misure di polizia, per neutralizzare la pericolosità sociale, devono essere rapide ed efficaci, insomma non andare troppo per il sottile. Cioè privando o quanto meno comprimendo le garanzie del proposto e confinando nell'area (extrapenale) amministrativa il relativo procedimento. Però la loro incisività crescente significa maggiore invasività e limitazione della libertà e del patrimonio del destinatario, beni di rilevanza costituzionale, con l'inevitabile tensione verso approdi illiberali e di dubbia compatibilità con la Carta fondamentale.
Da qui la speculare esigenza di irrobustire il tessuto garantistico, quindi di attrarre nella giurisdizione penale il procedimento. E naturalmente con il rischio di ingolfarlo, esponendolo ai noti e cronici vizi del processo penale tout court.
Il risultato è così un ibrido senza netta fisionomia, anzi aggravato nel Codice antimafia. Per convincersene, basta guardare all'articolo 4, che disciplina le misure di prevenzione personali applicate dall'autorità giudiziaria: si rivolge infatti (tra gli altri) «agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all'articolo 416 bis c.p.». Se il presupposto è da valutare con favore, poiché evita di criminalizzare il mero sospetto e richiede una categoria giuridica rafforzata (l'indizio), il rovescio della medaglia è costituito dalla sostanziale duplicazione che il legislatore finisce per creare con il processo penale. E cioè, se per incamminarsi nelle sabbie mobili del procedimento di prevenzione il proposto deve essere indiziato di mafiosità, automaticamente - e soprattutto vigente il principio di obbligatorietà dell'azione penale - l'indiziato dovrà essere sottoposto a procedimento penale. E in questa sede passibile dei medesimi provvedimenti (personali e patrimoniali) che il codice di rito ammette nell'alveo delle misure cautelari.
Se questo pericolo di scivolamento e immedesimazione della prevenzione in territori del processo penale è visibile sul piano astratto-normativo, non bisogna meravigliarsi o scandalizzarsi se la giurisprudenza sviluppa anticorpi in funzione di recupero di efficienza, comprimendo la iurisdictio della prevenzione.
Da qui una scia di pronunce della Suprema Corte (mitigate fortunatamente dall'intervento della Corte costituzionale, a sua volta ispirato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo) a carattere auto-limitativo e di impoverimento dei requisiti fondanti la prevenzione.
Insomma, il sospetto è che la giurisprudenza utilizzi le misure di prevenzione per colpire la mafia, quando non vi riesca con l'arsenale classico del diritto penale, per la difficoltà di raggiungere una prova certa. Una certificazione di incapacità dei mezzi ordinari e l'aggiramento dell'ostacolo con strumenti indiretti. Un sospetto legittimo, poiché analogo a quanto accaduto con la famigerata figura del concorso esterno in associazione mafiosa, di derivazione giurisprudenziale, sovente utilizzata per colpire forme vaporose di contiguità non attirabili nella fattispecie dell'articolo 416 bis del codice penale. Un'occasione perduta dal legislatore per dettare indicazioni precise e arrestare la graduale trasformazione delle misure di prevenzione da praeter a cum delicto.
Risulta inquietante peraltro il provvedimento di cui all'articolo 34: l'amministrazione giudiziaria dei beni disposta dal Tribunale, addirittura fino a un anno, sulla base di parametri di vaghezza sconcertante, nonostante l'indubbia severità e cioè quando vi siano elementi sufficienti per ritenere che il libero esercizio delle attività economiche agevoli l'attività di un semplice indagato. Che se sarà assolto dovrà fare i conti con ciò che resterà del suo patrimonio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA di Andrea R. Castaldo

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