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Questo articolo è stato pubblicato il 25 luglio 2012 alle ore 12:30.

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La relazione sentimentale tra un negoziante e il suo commesso non è un fatto di rilevanza pubblica – neppure per una piccola città di provincia - e pertanto pubblicare la notizia, imputando tra l'altro al fidanzamento l'addebito della separazione coniugale, non solo viola la privacy ma è oltretutto una diffamazione.

La storia d'amore nata dietro al bancone in un piccolo paese del centro Italia è l'occasione, per la Suprema Corte (sentenza 30369/12, depositata il 24 luglio), per mettere ancora una volta a punto il rapporto tra informazione, privacy dei cittadini e reati a mezzo stampa. Anche perché la notizia della separazione determinata dall'insolito triangolo era addirittura finita sulla rete locale dell'Ansa e poi ripresa senza verifica da un periodico che, pur senza spiattellare facce e cognomi, aveva descritto nomi e professione (molto specializzata, peraltro, nel caso specifico) della novella coppia. Tanto rumore, in quel piccolo contesto geografico e culturale, da costringere il commerciante a ricorrere al giudice per aver ragione dell'imbarazzo e della cattiva luce provocatagli dall'esposizione al pubblico ludibrio.

Secondo il giudice preliminare competente per territorio, però, la pubblicazione della storiella pruriginosa non poteva essere censurata: un piccolo spaccato di realtà, argomentava il magistrato, dove non c'è volontà di ledere, considerato che ormai «l'omosessualità è condizione da non negare e da non nascondere»; ma soprattutto, secondo il Gup, dirimente alla fine era la circostanza che il periodico aveva sì riportato il nome, ma non il cognome dei fidanzati e, volendo, neppure il paese e ancor meno il portico esatto del luogo di lavoro.
Ma proprio su questo punto la Cassazione ha posto dei distinguo, perché ormai da tempo la giurisprudenza ha separato il concetto di «individuazione» di una persona da quello di «individuabilità». Infatti, dato un determinato contesto (in questo caso, due cuori e un negozio sofisticato) «è sufficiente che l'offeso possa venire individuato per esclusione in via deduttiva tra una categoria di persone, a nulla rilevando che in concreto l'offeso venga individuato da un ristretto gruppo di persone». Quindi, basta porre le condizioni perché chiunque lo voglia possa riconoscere in via deduttiva le persone al centro dello "scandalo".

E sullo sfondo resta comunque la questione dell'interesse pubblico a rendere noti dei fatti. La relazione del negoziante – che per inciso ha poi promosso il dipendente a socio – «è una situazione di fatto riconducibile alle scelte di vita privata» della parte lesa, quindi «non ha alcun rilievo sociale (almeno nella attribuzione del fatto a una persona ben individuata o facilmente individuabile) con la conseguenza che l'articolo in questione potrebbe aver violato, ad un tempo, la privacy della persona offesa e – attraverso tale violazione – la reputazione della stessa».
Pertanto il giudice di merito ha clamorosamente sbagliato nel riconoscere l'esimente del diritto di cronaca «la cui configurabilità presuppone l'esistenza dell'interesse pubblico».

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