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Questo articolo è stato pubblicato il 10 settembre 2012 alle ore 18:22.

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Il "bullismo" non si combatte con una analoga prova di forza da parte dell'insegnante. È questo il senso della sentenza 34492 di oggi della Cassazione (si legga il testo sul sito di Guida al diritto), che ha confermato la condanna alla reclusione, per abuso dei mezzi di correzione, nei confronti di una professoressa di una scuola media statale di Palermo, che, per punire un alunno di 11 anni, l'aveva costretto a scrivere per cento volte sul quaderno la frase «sono un deficiente». Così facendo, però, secondo gli ermellini non si fa altro che «rafforzare il convincimento che i rapporti relazionali (scolastici o sociali) sono decisi dai rapporti di forza o di potere».

Assolta in primo grado: comportamento "adeguato"
In primo grado l'insegnante era stata assolta perché il fatto non sussiste. Secondo il giudice, infatti, il comportamento della insegnante fu "adeguato" e motivato con l'intento di interrompere, con un "intervento tempestivo ed energico", la condotta "bullistica" dell'alunno che avrebbe tenuto un "comportamento derisorio ed emarginante" verso un compagno di classe.

In Appello scatta la condanna a un mese
Di tutt'altro avviso la Corte d'Appello di Palermo che ricostruendo la vicenda ha escluso il comportamento bullistico e anche il "tentativo di emarginazione", concludendo che l'insegnate aveva manifestato «un comportamento afflittivo ed umiliante, trasmodante l'esercizio della sua funzione educativa» costringendo il minore, davanti a tutta la classe, «ad insultarsi» e «imponendogli di far firmare il compito a genitori».

Una nuova sensibilità
Una tesi sposata dalla Cassazione che, richiamando la riforma del diritto di famiglia e la Convenzione delle Nazioni unite sui diritti del bambino (ratificata nel 1991 dall'Italia), ricorda come il termine "correzione" vada reinterpretato nel senso di "educazione" del bambino, per cui nel processo formativo va eliminato «ogni elemento contraddittorio rispetto allo scopo ed al risultato».

La violenza non è mai educativa
Dunque, «Non può ritenersi lecito l'uso della violenza, fisica o psichica, distortamente finalizzata a scopi ritenuti educativi», afferma la Cassazione, «e ciò sia per il primato attribuito alla dignità della persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato, semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli adulti». E sia perché - prosegue la sentenza - «non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà, utilizzando mezzi violenti e costrittivi che tali fini contraddicono». Perciò , la risposta della scuola deve essere «sempre proporzionata alla gravità del comportamento deviante dell'alunno» e in ogni caso «non può mia consistere in trattamenti lesivi dell'incolumità fisica o afflittivi della personalità del minore».

La lesione va sempre provata
I Supremi giudici, però, hanno concesso alla prof. uno sconto di pena di 15 giorni - rispetto alla condanna d'appello pari a 30 giorni di reclusione - eliminando l'aggravante di aver provocato nell'adolescente un "disturbo del comportamento", ipotesi avanzata dallo psicologo, ma non provata con certezza.

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