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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2012 alle ore 17:07.

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Nella foto il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti (Ansa)Nella foto il direttore del Giornale, Alessandro Sallusti (Ansa)

«Spiccata capacità a delinquere» (dimostrata dai precedenti penali dell'imputato), e «gravità del fatto» (per via delle "negatività" con cui è stato commesso), sono le ragioni che hanno spinto la Corte di cassazione a confermare il carcere per Alessandro Sallusti. Un'ipotesi "eccezionale" nei casi di diffamazione - ammetta la Suprema corte - ma pur sempre prevista quando si è di fronte a «condotte lesive di diritti fondamentali».
Il ragionamento è contenuto nelle motivazioni della sentenza 41249/2012 con cui la Corte di cassazione (si legga il testo sul sito di Guida al diritto), in ben 26 pagine di ragionamenti, ricostruisce punto per punto i motivi che hanno portato alla bocciatura del ricorso dell'attuale direttore del Giornale Alessandro Sallusti per la diffamazione di un magistrato, avvenuta nel 2007 quando era alla guida di Libero.

Il peso della recidiva
La suprema Corte spiega come la detenzione sia legittima perche «Sallusti è recidivo». Il direttore de 'Il Giornale', motiva infatti la Suprema Corte, ha già a suo carico «sette pregresse condanne per diffamazione di cui sei in relazione all'ipotesi prevista dall'art. 57 c.p.». Mentre a nulla vale la difesa di Sallusti secondo cui questa situazione è connaturata alla natura del lavoro di direttore, per la Cassazione la tesi è insostenibile: «non può ammettersi l'esistenza di una lecita attività lavorativa che abbia, come inevitabili prodotti naturali, fatti lesivi di diritti fondamentali dei cittadini».

Nessun elemento positivo per sospendere la pena
Sulla mancata concessione della sospensione condizionale della pena, la Cassazione fa notare che la difesa «sul piano sostanziale non indica alcun elemento che consenta una prognosi positiva, sui futuri comportamenti di un giornalista che, in un limitato arco di tempo (dal 2 settembre 2001 al 30 maggio 2003) ha sei volte manifestato una reiterata indifferenza colposa nei confronti del diritto fondamentale della reputazione e una volta (il 12 ottobre 2002) ha leso direttamente tale bene».

Lo stravolgimento dei fatti reali
Non solo, «le risultanze testimoniali e la documentazione acquisita dimostrano, in maniera conforme e coerente l'iniziale, autonoma, immutata decisione della minorenne - consapevole della difficile situazione personale e familiare, di abortire. L'intervento del giudice Cocilovo è stato reso necessario dalla correlata decisione della giovane donna di non informare il padre e di non consentirgli di esprimere il proprio assenso».

Nessuna resipiscenza
Inoltre, il fatto di non aver mai smentito la notizia falsa data dal suo giornale dipingendo un giudice 'abortista' ha rafforzato il "dolo". «Il direttore, nell'esercizio del suo diritto di guidare la redazione, in tutta autonomia, non solo ha manifestato assoluta indifferenza rispetto al dovere professionale di sanare la violazione della libertà, ma ha dato spazio, nel quotidiano» del giorno successivo, «ad un prosieguo della campagna di offuscamento dell'immagine dei soggetti, a vario titolo, intervenuti nella vicenda, attraverso la riproposizione, da parte di un noto avvocato, dell'assenza di consenso della minorenne».

La crociata contro un giudice dello Stato italiano
Insomma, «perfettamente è stata inquadrata la condotta diffamatoria contenuta nella crociata contro un giudice dello Stato italiano». Inoltre, annota ancora la Suprema Corte, «a Sallusti è stata ritenuta riconducibile la responsabilità per il reato di diffamazione non quale autore, ma quale direttore che, nell'esercizio del suo potere-dovere di guida dell'indirizzo politico culturale informativo del quotidiano da lui diretto, ha indubbiamente partecipato alla deliberata pubblicazione della notizia falsa e diffamatoria».

I soggetti lesi
Una condanna dunque che dovrebbe riparare al danno subito da più parti: il medico «che aveva correttamente svolto le ordinarie funzioni assegnategli dal suo incarico nella strutta pubblica», i genitori adottivi della tredicenne «sbattuti in prima pagina come persone disumane», senza tralasciare la minorenne che, evidenzia la Cassazione, «ha subito non solo un'ingiustificata e prorompente invasione nella propria sfera di riservatezza, ma si è trovata presentata all'attenzione dell'ambiente sociale in cui viveva con l'immagine di improvvida e scoordinata curatrice del proprio corpo».

La lesione della dignità
Infine, registra la Cassazione, c'è anche un danno morale da liquidare perchè «è di tutta evidenza la ferita di lunga durata dell'identità professionale, della dignità dell'uomo, del credito sociale che il giudice si era conquistato con anni di attività lavorativa, causata dalla deformante e funesta immagine di apportatore di violenza morale, di morte e di follia».

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