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Questo articolo è stato pubblicato il 27 dicembre 2012 alle ore 06:40.

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Nel pantano in cui è affondata l'attuazione del federalismo fiscale nell'anno del governo Monti, tra tagli severi e manovre indispensabili ma estemporanee come l'Imu, c'è un pezzo di riforma che marcia coraggiosamente avanti: i fabbisogni standard.
Da poco la Copaff, la commissione tecnica per l'attuazione del federalismo, ha approvato la seconda tranche dei fabbisogni standard sulle funzioni fondamentali di Comuni e Province (si veda Il Sole 24 Ore del 22 dicembre). Si tratta, per i Comuni in particolare, della spesa standard relativa al funzionamento degli uffici tecnici, tributari, statistici, dell'anagrafe e degli altri servizi generali, cioè il cuore della macchina amministrativa. Per i Comuni delle regioni a statuto ordinario valgono quasi 9 miliardi, ovvero il 27% della loro spesa corrente sulle funzioni più rilevanti.
Messi insieme con i servizi di polizia locale, i cui fabbisogni standard sono stati approvati già a giugno, vuol dire che già oggi per più di un terzo delle principali spese comunali sono disponibili, Comune per Comune, valutazioni della spesa "giustificata" sulla base delle loro caratteristiche strutturali (popolazione, territorio eccetera) che incidono sulla domanda di servizi e sulle condizioni locali di produzione. E il quadro dovrebbe completarsi a breve: secondo il ruolino di marcia, l'operazione dovrebbe chiudersi entro l'estate 2013 con la valutazione di istruzione, servizi sociali, trasporti e gestione del territorio.
Si tratta sul piano tecnico di un risultato di grande valore. Il passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni standard significa più efficienza e più equità nell'allocazione delle risorse sia nella perequazione sia nella revisione della spesa. L'approccio seguito dal nostro Paese, basato su una raccolta assai dettagliata di informazioni strutturali per singolo ente e su tecniche di stima econometrica, ci pone in prima fila nel contesto internazionale.
È invece sul piano dell'effettivo utilizzo dei fabbisogni standard, quindi su un livello politico, che si deve ancora lavorare. È necessario mettere i fabbisogni standard a regime nel finanziamento dei governi locali.
La legge di stabilità da poco approvata è un esempio lampante di questa opportuna apertura verso i fabbisogni standard ma, al contempo, della necessità di una loro più adeguata integrazione. Nella manovra di fine d'anno i riferimenti ai fabbisogni standard sono ripetuti. Innanzitutto, nella riformulazione dei parametri di virtuosità ai fini del Patto di stabilità interno si prevede che a partire dal 2014 si dovrà dare prioritaria considerazione alla convergenza tra spesa storica e fabbisogni standard. In secondo luogo, quando si interviene sui tagli al fondo di riequilibrio previsti dalla spending review, si calibrano più direttamente le riduzioni da imputare a ciascun Comune sui fabbisogni standard. Infine, nella parziale rassegnazione dell'Imu ai comuni e in particolare nel nuovo fondo di solidarietà collegato alla nuova Imu, si stabilisce che nell'assegnazione dei trasferimenti perequativi ai singoli enti necessari per ridurre le differenze di basi imponibili si faccia riferimento appunto anche ai fabbisogni standard. Insomma, un gran lavorio attorno ai fabbisogni standard. Cosa manca allora? Quello che si fa fatica a riconoscere, soprattutto dopo le misure dell'ultimo anno, è una regia complessiva, un disegno coerente. Al di là di interventi più o meno improvvisati, manca ad esempio un sistema chiaro di perequazione dei comuni che, secondo la riforma del federalismo fiscale, dovrebbe garantire il finanziamento integrale dei fabbisogni standard delle funzioni fondamentali. Il paradosso è che tra poco avremo calcolato tutti i fabbisogni standard senza però sapere dove impiegarli.
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