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Questo articolo è stato pubblicato il 06 gennaio 2013 alle ore 11:24.

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Quale approccio seguiranno gli uffici nel confronto con il contribuente, all'atto della valutazione delle eventuali circostanze addotte come giustificazione della presunta anomalia da redditometro? Questo è un legittimo interrogativo che sorge all'indomani del varo del decreto ministeriale 24 dicembre 2012 (si veda Il Sole 24 Ore del 4 e 5 gennaio scorsi).

Per previsione normativa, non vi potranno essere accertamenti automatizzati; quindi, si deve convocare il soggetto affinché fornisca informazioni e notizie, si devono valutare gli elementi e, solo se questi non convincono, si deve iniziare la fase di accertamento con adesione. Il ragionamento può essere posto in parallelo con l'esperienza degli studi di settore, in relazione ai quali, per molti anni, il risultato di Gerico è stato valutato dagli uffici come un vero e proprio dogma. Il rischio che può emergere con il redditometro è il medesimo. Al riguardo, l'unica soluzione possibile è l'emanazione di direttive chiare a livello centrale, che possano far superare la discrezionalità del singolo funzionario.

Con ciò, si riuscirebbe a privilegiare l'emanazione di un avviso di accertamento solo quando lo stesso è realmente fondato. La riflessione va ovviamente valutata alla luce delle due possibili funzioni del redditometro: strumento di selezione delle posizioni anomale da porre sotto la lente dell'accertamento e metodologia accertativa vera e propria. Il primo aspetto ben si sposa con gli automatismi informatici, impostati in modo da cogliere il livello di presunto "rischio fiscale" del contribuente; così, si spiega benissimo l'ampio riferimento alle voci standard elaborate dall'Istat.

Tuttavia, la prima fase di "cernita automatizzata" deve poi essere seguita da un successivo stadio di confronto personalizzato, indispensabile per transitare dal generale al particolare mediante un percorso di adattamento che tenga conto delle peculiarità della posizione. Qui, allora, cominciano a sorgere alcune perplessità: in primo luogo, in relazione agli strumenti a disposizione del singolo contribuente. Si badi bene che parliamo di accertamenti applicabili sin dal periodo di imposta 2009, con una situazione che avrà pure la copertura normativa necessaria, ma di certo fatica a sposarsi con la logica, quanto meno per la circostanza che non era diffusa l'abitudine, nel passato, di mantenere memoria e annotazione delle singole movimentazioni effettuate, sia in entrata (donazioni tra familiari, prestiti vari, ecc.), sia in uscita.

In sostanza, per giustificare la correttezza della propria posizione, sembra necessario riuscire a ricostruire la "vita finanziaria" propria e della famiglia, dimostrando un livello di spesa inferiore a quello presunto, oppure l'esistenza di redditi legittimamente non dichiarati, oppure ancora di disponibilità accumulatesi nel tempo. Tocchiamo, allora, il tasto degli investimenti (al netto di eventuali finanziamenti ricevuti), che nel nuovo redditometro giocano in rapporto di 1 a 1 sull'anno di effettuazione dell'acquisto (ad esempio, dell'abitazione), quando invece l'esperienza comune insegna che gli stessi sono solitamente possibili anche grazie al risparmio di più annualità. Inoltre, la tabella A allegata al decreto, da un lato, consente di nettizzare l'esborso con i disinvestimenti netti dell'anno e dei quattro precedenti; tuttavia, l'articolo 3, ammonisce che il reddito ricostruito deve tenere conto anche della quota di risparmio riscontrata, formatasi nell'anno. Insomma, se l'accumulo di denaro (risparmio) legittimamente presuppone l'esistenza di un reddito nel periodo, ci sembra ragionevole ritenere che l'utilizzo di quel risparmio rappresenti tecnicamente un disinvestimento che deve decrementare l'ammontare della spesa sostenuta.

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TAG: Fisco, Istat

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