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Questo articolo è stato pubblicato il 04 febbraio 2013 alle ore 06:45.

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Il patto di stabilità interno per gli organismi partecipati sta dunque per diventare una realtà. Atteso a partire dalla manovra estiva del 2008, riproposto in molte norme, sembra ora davvero in dirittura di arrivo con l'obiettivo di entrare in vigore nel 2014.
Anzitutto occorre riconoscere che si è affrontato il tema fondandosi su una base di dati che sembra, ad oggi, la più completa a disposizione, e che riguarda la quasi totalità delle società interamente partecipate dagli enti locali. Va anche detto che, proprio grazie a questo fondamento empirico, la bozza di decreto supera la semplicistica visione per la quale le società pubbliche sono un unicum. Si tiene dunque conto delle differenze settoriali, riconoscendo quelle diversità strutturali che altre norme si ostinano ad ignorare. Infine, nodo fondamentale, si accetta l'idea che se una società pubblica viola dei parametri di Patto debba essere sanzionato anche l'ente locale proprietario (anche se un problema che nasce è quello delle società con più enti locali partecipanti).
La scelta di un Patto "orizzontale" (ovvero società per società, e non per il Comune e per le controllate nel suo insieme) è chiaramente un limite, che dipende però dal fatto che i Comuni, nonostante la previsione del Dl 174/2012, ancora non redigono un bilancio consolidato; il limite può però essere (temporaneamente) superato dal meccanismo delle sanzioni. In fase di prima applicazione, pertanto, non si vede realisticamente un'alternativa, a condizione che vi siano sanzioni incisive per i Comuni soci.
Ci sono però criticità da risolvere. La prima è che non possono essere escluse dal Patto le aziende che non hanno la natura giuridica della società di capitale. L'effetto inevitabile sarebbe quello di assistere alla trasformazione (e con buona pace del divieto di costituirne di nuove, fissato dall'articolo 9 del decreto sulla spending review) delle Spa in aziende speciali o altro, inducendo a un percorso a ritroso rispetto a quello impresso fino ad oggi a partire dagli anni Novanta.
Occorre riflettere, inoltre, sulla corretta definizione di risultato economico, perché il semplice utile netto si può prestare a oggettive manipolazioni, quali la riduzione degli ammortamenti e simili, col risultato di ridurre il fisiologico autofinanziamento delle imprese.
Soprattutto, però, si deve avere chiaro che l'obiettivo della estensione del Patto agli organismi partecipati non è certo quello di colpire in maniera indiscriminata le società pubbliche locali, ma di scoraggiare le degenerazioni del fenomeno, in particolare le aziende patrimoniali e quelle che di fatto nascono solo come forma più o meno esplicita di elusione. Per individuarle può essere utile un indicatore (per altro già previsto per gli enti locali) quale il rapporto tra oneri finanziari e ricavi delle vendite e delle prestazioni. Esso non è superabile con operazioni di aumento di capitale prive di contenuto monetario (per rimediare ad una bassa capitalizzazione, altrimenti, basta conferire immobili).
L'estensione del Patto alle partecipate è un passo importante, ma occorre avvertire del rischio (o meglio della facile previsione) che ciò comporterà a breve l'inserimento dei suoi destinatari anche nell'elenco Istat della Pa, con un effetto certo di trasparenza ma con un inevitabile aumento del debito pubblico consolidato, in misura pari dell'indebitamento di dette aziende (stimabile tra i 30 ed i 40 miliardi di euro). Non proprio un toccasana per i nostri conti pubblici.
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