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Questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2013 alle ore 06:42.

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Le dichiarazioni rese dal datore di lavoro nel verbale di denuncia di un infortunio possono avere natura confessoria e, in particolare, possono essere usate contro di lui per affermarne la responsabilità in merito alla produzione del danno subito da un lavoratore.
Così si è espressa la Corte di cassazione, con la sentenza n. 8611 del 6 febbraio 2013, con la quale è stata decisa una vicenda che ha visto contrapposti un lavoratore infortunatosi sul lavoro, e la compagnia assicurativa tenuta a risarcire il danno per conto del datore di lavoro. Le parti, nei precedenti gradi di giudizio, avevano esposto tesi differenti circa le modalità di svolgimento dei fatti e, in particolare, circa la colpa dell'infortunio. Il lavoratore aveva sostenuto di essersi infortunato cadendo da uno scaffale alto più di tre metri, mentre l'assicurazione aveva contestato questa ricostruzione, evidenziando che il lavoratore si era infortunato per colpa propria e, in ogni caso, non aveva fornito prova adeguata circa la colpa del datore.
La sentenza della Corte di cassazione dirime la questione ricordando, innanzitutto, che quando si parla di infortuni sul lavoro l'onere della prova grava sul lavoratore, considerata la natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro in materia di sicurezza; quindi, l'infortunio, la sua entità e il nesso di causalità con l'attività lavorativa devono essere provati dal dipendente. La prova, tuttavia, secondo i principi generali, può essere ricavata anche da una confessione del datore di lavoro; su questo punto la Corte, ribaltando le decisioni precedenti, sostiene che la confessione può essere ricavata anche dalla denuncia di infortunio presentata all'Inail al momento del sinistro.
Nel caso in esame, il datore di lavoro aveva scritto in tale denuncia che il dipendente si era infortunato «cadendo da uno scaffale». La Corte d'appello, con la sentenza annullata dalla Cassazione, aveva negato rilevanza confessoria a questa affermazione, sostenendo che era priva dell'elemento soggettivo tipico della confessione e, in ogni caso, che era un'affermazione troppo generica per legittimare un giudizio di responsabilità. La Suprema corte dissente da questa lettura, rilevando che, ai fini della valenza confessoria di una dichiarazione, è sufficiente che il dichiarante abbia piena conoscenza e consapevolezza dei contenuti di quello che afferma; non è, invece, necessario che siano conosciuti (e voluti) anche i potenziali effetti sfavorevoli di quello che si dichiara. Il fatto che la dichiarazione sia breve e succinta, inoltre, non fa venire meno il carattere confessorio della dichiarazione: una prova può avere una minore o maggiore estensione, senza che l'eccessiva brevità possa far venir meno la sua rilevanza.
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