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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2013 alle ore 06:45.

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Pene sempre più severe per i cittadini stranieri che maltrattano la propria moglie perché così si usa nel loro Paese d'origine.
Sarà questo, secondo i giudici di Milano, l'effetto della Convenzione di Istanbul, recentemente ratificata dall'Italia, sulla violenza culturalmente orientata: la norma internazionale non riconosce, infatti, la possibilità di negare il dolo nei casi di maltrattamento.
Il tribunale di Milano, con la sentenza 1835 depositata il 9 luglio, ha condannato un cittadino siriano negandogli quelle attenunanti culturali che la stessa vittima tendeva a riconoscergli. La moglie dell'imputato, cittadina italiana, malgrado venisse picchiata e umiliata in quanto donna, non aveva interrotto la convivenza e aveva dato al trattamento subito una giustificazione etnica affermando che il marito «era crescito in un Paese dove la donna contava meno e dove era normale che accadessero cose del genere».
Proprio sul mancato allontanamento della donna da casa aveva fatto leva la difesa per dimostrare una tacita accettazione della sudditanza.
I giudici hanno preso, però, le distanze dal relativismo culturale, sostenuto anche da parte della dottrina e della giurisprudenza. Il tribunale di Milano spiega che, in nome di un'integrazione-inclusione, che comporta anche l'accettazione di sensibilità diverse, i fautori dell'orientamento multiculturale chiedono al giudice penale di leggere il comportamento violento del cittadino straniero «applicando i profili di soglia della concezione della famiglia tipica del gruppo sociale di appartenenza con l'accettazione ad esempio, del ruolo secondario della donna anche in punto di riduzione del proprio volere di autodeterminazione».
Il tribunale meneghino accetta il ruolo di mediatore culturale del giudice purché siano applicati i principi fondamantali, sovranazionali e costituzionali, che assicurano la tutela della vittima, che non può «prestare il suo consenso alla lesione dei diritti indisponibili».
I giudici individuano un forte strumento di lotta contro la violenza culturalmente motivata proprio nella Convenzione firmata a Istambul l'11 maggio 2011 e ratificata dall'Italia con la legge 77 il 27 giugno 2013 (anche se per l'applicazione manca ancora l'adesione di cinque Stati).
All'articolo 12, comma 5, la norma prevede infatti che «le Parti vigilano affinché la cultura, gli usi, i costumi, la religione, la tradizione o il cosiddetto onore non possono in alcun modo essere utilizzati per giustificare nessun atto di violenza che rientrano nel campo d'azione della Convenzione». Il tribunale ha accolto la richiesta del danno morale avanzata dalla parte civile e condannato l'uomo a un anno e sei mesi di reclusione. Non passa inosservato il fatto che l'uomo era diventato ancora più violento dopo aver appreso che la moglie incinta gli avrebbe dato una figlia e non un figlio.
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