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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2013 alle ore 06:49.

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Il superiore gerarchico che ha attuato straining nei confronti di un lavoratore può incorrere in responsabilità penale; e se dalla sua condotta non deriva il reato di maltrattamenti in famiglia, occorre valutare se ha commesso il reato di lesioni personali volontarie. È questo il principio affermato dalla Cassazione con la sentenza 28603 del 3 luglio scorso.
Il caso esaminato dalla Corte riguarda un lavoratore che ha lamentato di essere stato oggetto, da parte di superiori, di azioni, pur numericamente limitate e temporalmente distanziate, che hanno determinato un ingiustificato demansionamento e un lieve disturbo dell'adattamento. Lo straining (diverso dal mobbing) consiste, secondo la giurisprudenza, in una sola o in poche azioni ostili che producono duraturi effetti negativi nei confronti di una persona che si trovi in posizione di inferiorità. Nel caso in esame il lavoratore, a seguito di quanto subìto, è stato incapace di dedicarsi alle proprie occupazioni per oltre 40 giorni.
Il tribunale ha assolto gli imputati dal reato previsto dall'articolo 572 (maltrattamenti contro familiari e conviventi), comma 2, del Codice penale in quanto il fatto non sussiste, poiché l'ambito lavorativo in cui sono avvenuti i fatti non poteva essere considerato parafamiliare, cioè caratterizzato da una stretta relazione interpersonale simile a quella che si sviluppa in un ambito familiare. La decisione assolutoria è stata condivisa anche dai giudici di secondo grado.
Il lavoratore, come parte civile, ha fatto quindi ricorso per Cassazione, contestando vari profili della sentenza di secondo grado. In particolare, ha contestato l'esclusione dell'applicabilità del reato di maltrattamenti in un ambiente lavorativo di grandi dimensioni, la non riconosciuta rilevanza penale di condotte persecutorie intervallate da periodi di forzata inattività del lavoratore e la mancata valutazione giuridica dell'esistenza del reato di lesioni.
La Cassazione ha accolto parzialmente il ricorso. Da un lato ha confermato la decisione d'appello dove ha affermato l'inapplicabilità dell'articolo 572 del Codice penale, condividendo che non si potesse configurare, nel l'ambito lavorativo esaminato, né una famiglia né un ambiente parafamiliare: la situazione lavorativa era connotata da un rapporto distaccato e formale, in cui non emergeva una dinamica relazionale di "supremazia-soggezione", e in cui, quindi, il dipendente aveva la possibilità di avvalersi di garanzie idonee a reagire alle ingiuste offese subite. D'altra parte, la Cassazione ha riconosciuto che i giudici di merito non hanno valutato se le condotte poste in essere dal superiore potessero configurare altre fattispecie di rilievo penale, pur meno gravi, concorrenti con il delitto previsto dall'articolo 572 del Codice penale. In particolare, la Cassazione ha chiarito che – dato lo straining – sarebbe stato necessario verificare se fosse stato commesso il reato di lesioni personali volontarie, delitto autonomo, perché previsto dall'articolo 582 del Codice penale, rispetto a quello di maltrattamenti in famiglia. La Cassazione ha quindi annullato la sentenza solo per gli effetti civili e ha rinviato al giudice civile affinché verifichi la responsabilità dell'imputato per il reato di lesioni personali, condannandolo al risarcimento.
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