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Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2013 alle ore 06:45.

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Gli uffici delle Entrate possono sindacare la congruità dei prezzi di trasferimento stabiliti tra due società appartenenti allo stesso gruppo ed entrambe residenti in Italia applicando il criterio del valore normale stabilito dall'articolo 9 del Tuir. Questo è il principio sancito dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 17955 del 2013, la cui motivazione suscita, però, alcune perplessità.
Il caso esaminato trae origine da un rilievo avente a oggetto la contestazione dell'antieconomicità dell'applicazione della percentuale di ricarico del 4% anziché del 10,9% alle cessioni effettuate dalla società controllante a una controllata, che fruiva delle agevolazioni previste per il Mezzogiorno.
La Suprema corte ha affermato che, anche se la disciplina del «transfer pricing estero», contenuta nell'articolo 110, comma 7, del Tuir, non si può applicare direttamente a quello «interno o domestico» (come già precisato nella sentenza n. 23551 del 2012 e nella circolare n. 53/E del 1999), tuttavia la stessa «costituisce una clausola antielusiva immanente in settori del diritto tributario nazionale».
È stato fatto, in primo luogo, riferimento al «principio di carattere generale» stabilito dal l'articolo 9 che «non ha soltanto valore contabile e... impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato per i corrispettivi presi in considerazione dalla parte contribuente». Tale riferimento appare, però, erroneo, perché il valore normale non costituisce uno strumento generale di controllo dei corrispettivi bensì un criterio da utilizzare, nei casi normativamente previsti, in presenza di componenti reddituali in natura.
L'affermazione che la disciplina del «transfer pricing estero» costituisce una «clausola antielusiva» non risulta, peraltro, in linea con la sentenza n. 10742 del 2013, che ha giustamente evidenziato che per la sua applicazione non occorre dimostrare l'elusione (anche se precedenti sentenze si sono pronunciate in senso contrario).
La Cassazione ha poi richiamato sia il principio del divieto di abuso del diritto che quello dell'inerenza "quantitativa", in base al quale «in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell'economia e privo di adeguata spiegazione, è legittimo l'accertamento del fisco».
La contemporanea applicazione di tali principi fa, però, sorgere il problema di quale disciplina dell'onere probatorio risulti applicabile. La Corte ha, infatti, affermato, con giurisprudenza costante, che l'onere della prova dell'inerenza dei costi grava sul contribuente mentre in presenza di fenomeni elusivi incombe sull'Amministrazione finanziaria l'onere di provare l'anomalia del comportamento del contribuente che induce a ritenere che lo stesso abbia conseguito indebiti vantaggi fiscali.
Si ritiene al riguardo preferibile fare riferimento al principio dell'inerenza "quantitativa", che in altre sentenze la Corte ha applicato con riguardo ai costi correlati ai servizi infragruppo (ad esempio nelle sentenze 9497/2008 e 16642/2011, nella quale è stato affermato che «l'antieconomicità della gestione di una società non può legittimamente dipendere, sotto il profilo fiscale, da politiche di gruppo volte semplicemente a dirottare ricavi»). È però necessario tenere presente che una operazione che, isolatamente considerata, può apparire antieconomica potrebbe, invece, risultare pienamente conforme ai canoni dell'economia se inquadrata alla luce della complessiva strategia imprenditoriale (sentenze 10062/2001 e 10802/2002).
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