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Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2013 alle ore 16:19.
Stop all'accertamento alla moglie che non considera anche l'apporto finanziario del coniuge pur in assenza di una ricevuta. Non è ragionevole, infatti, pensare che il marito imprenditore abbia distratto liquidità dalle casse sociali solo per soddisfare i creditori ignorando i bisogni della propria famiglia. È quanto emerge dalla sentenza 50/3/2013 della Ctp di Brescia.
La vicenda scaturisce dal ricorso proposto da una contribuente contro due distinti avvisi di accertamento ai fini Irpef. Il Fisco, a seguito delle risposte fornite dalla signora al questionario inviatole sulla sua capacità contributiva per gli anni dal 2006 al 2009, ha determinato sinteticamente il suo reddito per i periodi di imposta 2007 e 2008.
E questo perché nei due anni interessati, pur essendo la contribuente in possesso di un'abitazione principale, gravata da mutuo, e di una autovettura, non ha avuto redditi. L'interessata sostiene che in quel periodo non ha lavorato a causa di una grave malattia della figlia minore e che l'aiuto economico per il mantenimento della famiglia e dei suoi beni le è pervenuto dai familiari e dal marito. Quest'ultimo, come da relazione del curatore fallimentare, aveva distratto dalle casse sociali della società, fallita, di cui era amministratore denaro con cui, oltre a cercare di soddisfare i creditori, afferma la moglie, ha sostenuto anche la famiglia.
I giudici bresciani accolgono il ricorso. Rileva il collegio che «sarebbe contrario a qualsiasi regola di esperienza pensare che, in un momento di difficoltà finanziaria per l'azienda e per la famiglia, il coniuge imprenditore distragga fondi per cercare unicamente di soddisfare le pretese dei creditori e trascuri, invece, le esigenze primarie di vita della famiglia, così come negare che in tali momenti trovi spazio la solidarietà anche di altri familiari». Inoltre, concludono i giudici, la dazione di denaro dai familiari o dal marito alla moglie «non è mai assistita da apposita ricevuta».
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