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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2013 alle ore 08:27.

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Rischia il licenziamento il dipendente sorpreso a giocare, anche per ore, al computer in ufficio invece di svolgere il suo lavoro. Lo puntualizza la Cassazione, con la sentenza n. 25069 della Sezione lavoro, depositata ieri. La pronuncia ha accolto il ricorso di una società contro il giudizio della Corte d'appello di Roma che aveva dichiarato la nullità del licenziamento intimato a un dipendente accusato di «avere utilizzato, durante l'orario di lavoro, il computer dell'ufficio per giochi, con un impiego calcolato nel periodo di oltre un anno di 260-300 ore», provocando così un danno economico e di immagine all'azienda. Un giocatore compulsivo, quindi, la cui condotta era di gravità di tale, nella valutazione aziendale, da motivare l'interruzione del rapporto di lavoro.

I fatti risalgono al 2007: in primo grado, il tribunale di Roma aveva confermato il licenziamento, mentre la Corte d'appello ha invece deciso di annullarlo, condannando il datore di lavoro a riassumere entro tre giorni il dipendente o a risarcirlo con sei mensilità. La decisione dei giudici di secondo grado era stata motivata dal fatto che, nella lettera di contestazione che era stata indirizzata al lavoratore, si faceva riferimento a un solo episodio concreto. In questo modo, nella lettura dei giudici di secondo grado, la lettera, per la sua genericità, non lasciava margini sufficienti di difesa al dipendente. Per la Corte d'appello, però, il monitoraggio del computer effettuato dall'azienda, dal quale era emerso il suo improprio utilizzo, non poteva configurare un esempio di (illecito, secondo lo Statuto dei diritti dei lavoratori) controllo a distanza, visto che il lavoratore stesso aveva «probabilmente» acconsentito.

La Sezione lavoro ha invece accolto il ricorso dell'azienda sottolineando che «l'addebito mosso al lavoratore di utilizzare il computer in dotazione a fini di gioco non può essere ritenuto logicamente generico per la sola circostanza della mancata indicazione delle singole partite giocate abusivamente dal lavoratore». Per la Cassazione è dunque illogica la motivazione della sentenza d'appello «che lamenta indicazione specifica delle singole partite giocate, essendo il lavoratore posto in grado di approntare le proprie difese anche con la generica contestazione di utilizzare in continuazione, e non in episodi specifici isolati, il computer aziendale».

In questo senso ha trovato accoglienza la tesi della difesa dell'azienda che aveva tra l'altro messo in evidenza come la lettera di contestazione in realtà conteneva elementi precisi dell'addebito contestato, grazie anche a un accertamento tecnico da cui risultava il numero complessivo delle partite giocate. La Corte d'appello di Roma, dunque, dovrà riaprire il caso «non considerando generica la lettera di contestazione da cui poi è conseguito il licenziamento». (G.Ne.)

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