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Questo articolo è stato pubblicato il 22 maggio 2014 alle ore 14:07.
L'ultima modifica è del 22 maggio 2014 alle ore 14:12.

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«L'Italia, non avendo garantito che, a partire dal primo gennaio 2012, le galline ovaiole non fossero più tenute in gabbie non modificate, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli articoli 3 e 5, paragrafo 2, della direttiva 1999/74/Ce del consiglio, del 19 luglio 1999, che stabilisce le norme minime per la protezione delle galline ovaiole«. Così la Corte di giustizia dell'Unione europea del lussemburgo, sollecitata dalla Commissione europea che le ha chiesto di accertare se l'Italia, non avendo garantito che, a partire dal primo gennaio 2012, le galline ovaiole non fossero più tenute in gabbie non modificate, sia venuta meno agli obblighi comunitari.

La direttiva del 1999 dispone che, in funzione del o dei sistemi adottati, gli stati membri provvedano affinché i proprietari o detentori di galline ovaiole applichino i requisiti specifici di ciascuno dei sistemi. L'allevamento nelle gabbie non modificate (almeno 550 cm2 di superficie e 40 cm di altezza) è vietato a decorrere dal primo gennaio 2012.

La commissione fa valere dinanzi alla Corte Ue che il nostro paese «non è stato in grado di garantire che le galline ovaiole non fossero più allevate in gabbie non modificate anche al momento della scadenza del termine fissato nel parere motivato rivoltole». Bruxelles sottolinea poi che «l'Italia non contesta tale situazione e si è limitata a indicare che tutte le aziende italiane coinvolte sarebbero state allineate ai requisiti derivanti solo a partire dal primo luglio 2013«. Però «alla data del 4 dicembre 2012, 239 aziende allevavano ancora sul territorio italiano 11.729.854».

L'Italia, spiega la nota della Corte Ue, «ribatte che, alla data del deposito della controreplica in questa causa, nessun allevamento sul territorio italiano utilizzava più gabbie non modificate, ad eccezione di uno solo, situato nella regione veneto, oggetto di un procedimento giudiziario ancora pendente«.

Nella sua sentenza odierna la corte ricorda che, «secondo una costante giurisprudenza, l'esistenza di un inadempimento dev'essere valutata in relazione alla situazione dello stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato (nel nostro caso: 22 agosto 2012)«. Non possono essere prese in considerazione dalla corte modifiche successive.

Il governo italiano «non può inoltre giustificarsi adducendo l'impossibilità pratica per le autorità italiane di applicare il divieto di gabbie non modificate prima del primo luglio 2013».

La commissione o un altro stato membro possono proporre un ricorso per inadempimento diretto contro uno stato membro che è venuto meno ai propri obblighi derivanti dal diritto dell'Unione. Qualora la corte di giustizia accerti l'inadempimento, lo stato membro interessato deve conformarsi alla sentenza senza indugio. La commissione, qualora ritenga che lo stato membro non si sia conformato alla sentenza, può proporre un altro ricorso chiedendo sanzioni pecuniarie. Tuttavia, in caso di mancata comunicazione delle misure di attuazione di una direttiva alla commissione, su domanda di quest'ultima, la corte di giustizia può infliggere sanzioni pecuniarie, al momento della prima sentenza.

L'Italia, spiega la nota della corte Ue, «ribatte che, alla data del deposito della controreplica in questa causa, nessun allevamento sul territorio italiano utilizzava più gabbie non modificate, ad eccezione di uno solo, situato nella regione Veneto, oggetto di un procedimento giudiziario ancora pendente«.

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