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La Cina aumenta il salario minimo in 30 grandi città dopo gli scioperi. Cambia qualcosa anche per noi

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Questo articolo è stato pubblicato il 04 giugno 2010 alle ore 20:14.

Dopo gli scioperi illegali invece del castigo arriveranno gli aumenti di salario: il governo cinese ha annunciato che in 30 grandi città cinesi sarà alzato il salario minimo. A Pechino l'aumento sarà di 160 yuan, pari a 23,5 dollari. Può sembrare poco, ma tenuto conto che fino a oggi il salario minimo era di 800 yuan (117 euro), si tratta pur sempre di una crescita del 15 per cento.

L'aspetto sorprendente è che la decisione avviene a pochi giorni dal grande sciopero negli stabilimenti della Honda in Cina. Uno sciopero che si è concluso con un aumento per tutti del 24 per cento. Già parlare di sciopero, in questo paese, è una cosa fuori dell'ordinario. Gli scioperi in Cina avvengono ma sono, di fatto, illegali e quello alla Honda non faceva eccezione: non solo è cominciato in modo spontaneo ma i sindacati ‘ufficiali' legati al Partito si sono inizialmente schierati contro, venendo anche alle mani con i lavoratori. Questa volta è successo però qualcosa di assolutamente inatteso: mentre in occasione di altri conflitti nelle aziende, finora, era stato imposto un ferreo silenzio sulla stampa (le notizie circolavano, clandestinamente, su Internet e venivano riferite tramite contatti personali con giornalisti e organizzazioni non governative straniere) in questa occasione le Autorità hanno lasciato che sui media se ne parlasse ampiamente.

In Cina nulla avviene a caso e questo significa parecchie cose. In primo luogo il governo lancia un segnale alle aziende, soprattutto straniere, che operano nel Paese, che dovranno allentare i freni sul fronte salariale. L'industria dell'auto, che occupa milioni di dipendenti sarà la prima e non è poco. Altre seguiranno. Ma c'è di più. Gli aumenti indicano una svolta di grande portata nella politica economica cinese. Che spiega in modo chiaro Yang Yiyong, direttore di uno degli istituti di ricerca economica dipendenti direttamente dal governo: «I salari nel nostro paese, malgrado alcuni aumenti in anni recenti, sono rimasti troppo bassi e questo ha avuto un effetto negativo sulla domanda di beni quindi sull'economia nel suo complesso». Vale un dato per tutti: oggi, in Cina, i salari coprono meno del 40% della domanda complessiva, rispetto a più del 53% sedici anni fa. Dato tanto più concertante in quanto riguarda un Paese che si considera tuttora "socialista" anche se aperto all'economica di mercato. La scelta è quindi chiara: Pechino ha deciso di mettere da parte i ricorrenti timori di aumento dell'inflazione derivante dalla crescita dei salari e di ricorrere allo strumento più semplice ed efficace per stimolare l'economia. Le conseguenze sono a largo raggio e riguardano sia la Cina che gli altri paesi del mondo, inclusa l'Italia.

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Per quanto riguarda la Cina, la svolta è un passo concreto in direzione di un obiettivo ‘politico' spesso annunciato ma mai concretizzato in modo convincente: quello di far arrivare i benefici della crescita economica anche agli strati meno privilegiati della popolazione. Obiettivo strategico in quanto l'unico vero timore, attualmente, della classe dirigente cinese è quello di una crescita dei conflitti sociali dovuti a un eccessivo squilibrio nella distribuzione della ricchezza. Lo spostamento della domanda verso beni di largo consumo inoltre, contribuirà a un migliore utilizzo della capacità produttiva di migliaia di fabbriche che lavorano attualmente al di sotto del loro potenziale o che sono portate a esportare sottocosto, in mancanza di sbocchi sufficienti sul mercato interno.

Non solo, ma l'aumento del costo del lavoro, si tradurrà in un aumento dei prezzi che dal punto di vista tecnico, corrisponde a una ‘svalutazione' del potere d'acquisto della moneta. Questo contribuirà ad appianare le ricorrenti polemiche sul cambio dello yuan che premia gli esportatori cinesi e penalizza gli altri paesi.


In sostanza la Cina si avvia ad abbandonare, sia pure molto gradualmente, il ruolo di esportatore di beni a basso costo con prezzi imbattibili. Già oggi è stato calcolato, ad esempio, che per vendere sul mercato statunitense, è più conveniente produrre in Messico che in Cina. Considerazioni analoghe valgono per altri Paesi a basso costo, inclusi, per quanto riguarda l'Europa a 12, alcuni Stati dell'Est Europa e del Sud del Mediterraneo. E' una buona notizia anche per le aziende italiane che in questi Paesi si muovono più agevolmente che in Cina e hanno anche maggiori sbocchi e opportunità di mercato.

Un'ultima domanda il Sistema Cina sotto il profilo politico: la tolleranza dimostrata verso azioni che ‘scavalcano' i sindacati ufficiali indicano una svolta in direzione di una maggiore democrazia reale? Risponde Ivan Franceschini, uno dei maggiori esperti europei del mondo del lavoro cinese (http://www.cineresie.info): «Non bisogna andare troppo in là con le conclusioni: lo sciopero alla Honda è stato considerato utile ai fini degli obiettivi che si propone attualmente il governo. Ma se dovesse dare luogo ad azioni che rischiano di sfuggire al controllo delle Autorità, il sistema non esiterà a ricorrere nuovamente al pugno di ferro. E i primi a saperlo sono i lavoratori cinesi. Se riescono a individuare il limiti oltre i quali è meglio non andare, hanno un'opportunità per fare sentire anche la loro voce».

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