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Francia, Germania e Gran Bretagna chiedono al G 20 una tassa sulle banche

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2010 alle ore 08:53.

L'iniziativa anglo-franco-tedesca per una tassa globale sulle banche rimbalza sul tavolo dei capi di Stato e di Governo del G-20, che si riuniranno alla fine di questa settimana a Toronto, dopo che ministri finanziari e governatori, nel loro incontro coreano di Busan all'inizio del mese, sembravano averla definitivamente accantonata.

Londra è passata ieri dalle parole ai fatti, con il budget annunciato dal cancelliere George Osborne, Parigi e Berlino avanzano con l'approvazione di una legge per le rispettive banche nazionali (la Francia conta di ricavarne un miliardo l'anno). La lettera dalle tre capitali agli altri leader del G-20 ripropone il tema per la discussione fra i maggiori paesi industriali ed emergenti. È molto probabile che trovi la stessa, fredda accoglienza delle occasioni precedenti. Il campo degli oppositori è ampio, a partire dal Canada, che fa gli onori di casa del summit e il cui ruolo quindi non va sottovalutato. Sono nettamente contrari anche Giappone, Brasile e India. Tutti paesi dove i sistemi bancari sono usciti relativamente indenni dalla crisi degli ultimi tre anni e non hanno dovuto effettuare salvataggi di banche con soldi pubblici: non vedono ora la necessità di tassare le banche e insistono sull'importanza di prevenzione e vigilanza. «Una visione miope», secondo il direttore del Fondo monetario internazionale, Dominque Strauss-Kahn, il quale ha sostenuto a Busan che non è detto che i sistemi bancari che sono rimasti immuni dall'ultima crisi lo siano anche dalla prossima. Meglio allora dotarsi delle risorse finanziarie per affrontarla.

Proprio all'Fmi, il summit del G-20 a Pittsburgh dell'autunno scorso aveva dato mandato di studiare l'ipotesi di una tassa sulle banche. Il punto sul quale sono tutti d'accordo - ed è stato ribadito anche nel comunicato di Busan - è che «il settore finanziario deve dare un equo e sostanziale contributo per pagare gli oneri associati ai salvataggi pubblici». Non dovrà più accadere che il peso ricada sulle tasche dei contribuenti. Un concetto accettato persino dai grandi banchieri, come ha riconosciuto la loro associazione, l'Institute of International Finance, nel suo meeting di dieci giorni fa a Vienna.

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L'Fmi ha elaborato un primo studio, nel quale venivano individuati due tipi di imposte: una, il «contributo alla stabilità finanziaria», cui assoggettare tutte le banche, in modo inizialmente uguale, in base alle passività, e poi differenziando sulla base del rischio sistemico che il fallimento del singolo istituto potrebbe creare; la seconda sui profitti e i compensi dei banchieri. Ancor prima che la proposta fosse resa nota, alle riunione di primavera del Fondo, il documento è andato incontro a un fuoco di fila di critiche. A Busan si è notato semplicemente che per il summit di Toronto l'Fmi produrrà un rapporto finale, ma indicando «una gamma di opzioni» e lasciando intendere che tutto sarà rimesso ai singoli stati. Sulle modalità della tassa sulle banche, anche fra chi ne riconosce l'utilità, ci sono infatti ampie divisioni: chi la vorrebbe applicare preventivamente, in modo da avere le munizioni per far fronte a eventuali casi di difficoltà, chi è convinto che sia meglio applicarla ex post, anche per non creare azzardo morale, cioè la convinzione nei banchieri che, qualunque comprtamento adottino, ci sarà un salvataggio. Alcuni inoltre vorrebbero che i suoi proventi confluissero nel bilancio dello stato, altri pensano che sia meglio tenerli a disposizione in un fondo ad hoc.

Come su altri fronti, soprattutto la necessità di continuare a sostenere la crescita con la politica fiscale o accelerare il risanamento dei conti, difficile che Toronto possa replicare lo spirito di Londra, o di Pittsburgh, dello scorso anno, quando la crisi era più acuta e i venti sentivano la necessità di agire insieme.

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