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Contro la corruzione i partiti si affidano al codice etico. Come si regola il resto d'Europa

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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2010 alle ore 07:49.

Oggi il caso Verdini-Dell'Utri e il "processo" a Granata nel Pdl, ieri il caso Villari nel Pd. I partiti si trovano ciclicamente assetati di regole che ne disciplinino la condotta interna. E puntualmente si torna a parlare di codice etico. I tre partiti di opposizione se ne sono già dotati, il Pdl ne discute oggi sotto il pressing dei finiani che in nome della legalità chiedono più autodisciplina.
L'obiettivo, più o meno esplicito, è quello di allontanare i casi di corruzione (oltre che di mafia) dal partito. «Il nostro intento – spiegano i finiani – è quello di applicare l'articolo 49 della Costituzione chiedendo ai partiti di fare loro stessi pulizia all'interno».

I Democratici sono stati i primi in Italia, due anni fa, a dotarsi di un'appendice allo statuto chiamata proprio «codice etico», ultimamente messo in discussione per via del dibattito interno sulla massoneria. Il codice del Pd, oltre a mettere nero su bianco i principi ai quali gli iscritti dovrebbero ispirarsi, prevede precisi casi di incandidabilità alle elezioni e a cariche interne al partito e l'obbligo di dimissioni per chi già ricopre un incarico. Tra questi casi è previsto quello della corruzione: porte sbarrate per chi è stato condannato, anche in via non definitiva, per delitti di corruzione e di concussione. Più severo il codice dell'Idv che estende il divieto a chi sia stato rinviato a giudizio. Nessuno include – per ora – i semplici indagati, come ad esempio è al momento il coordinatore Pdl Denis Verdini. Ancora più generico il codice deontologico dell'Udc che sanziona i condannati in primo grado "per reati gravi". Il Pd stringe invece le maglie nel caso di delitti di mafia, anticipando (come fa anche l'Idv) le sanzioni dalla condanna al rinvio a giudizio.

Se in Italia dunque le carte etiche non hanno ancora fatto breccia in tutti i partiti, in Europa esse sono assai più diffuse e, soprattutto, rigorose. Di sicuro, accontenterebbe maggioranza e minoranza del Pdl l'articolo 11 dello statuto del Partito popolare spagnolo. Tra le infrazioni "molto gravi" annovera infatti sia l'«incorrere in qualsiasi forma di corruzione nell'esercizio di cariche pubbliche» che il «creare o spingere alla creazione di correnti d'opinione organizzate in seno al partito». Insomma i popolari spagnoli puniscono con il massimo della pena (che può variare dalla sospensione all'esclusione dagli incarichi nel partito, all'espulsione) sia la corruzione che il correntismo. Chissà che possa diventare proprio questa la mediazione interna al Pdl, capace di soddisfare sia i desiderata di Berlusconi, sia quelli di Fini.

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Dei "processi" interni ai partiti si occupa invece estesamente lo statuto del partito conservatore inglese che, nella parte XII, intitolata "etica, condotta e standard", cerca di descrivere quando il comportamento di un militante getta realmente discredito sul partito e quando no. E sottolinea che «una condotta che consista unicamente nell'esprimere un disaccordo rispetto alle politiche del partito non configura un comportamento suscettibile di gettare discredito sul partito». Ma chi decide se un comportamento è censurabile o meno? I conservatori dispongono di un «comitato per l'etica» che «determina in assoluta discrezione se un'istanza sia in effetti basata unicamente su una divergenza politica in seno al partito». Trasposto nell'italico Pdl, sarebbe questo l'organismo che dovrebbe giudicare se la condotta di Fabio Granata si configuri come una semplice divergenza dalla linea maggioritaria o come un comportamento dannoso per il partito. Ma non a tutti i partiti piace avere al proprio interno un organo che finisce per assomigliare troppo a un "tribunale". «In un partito – dice Stefano Ceccanti, estensore dello statuto del Pd – deve vigere un patto non scritto di lealtà reciproca che rende superflue regole così stringenti». Fu proprio a quel patto implicito (citato nel regolamento del gruppo parlamentare dei democratici) che il Pd si richiamò per espellere il senatore Riccardo Villari, reo di essersi fatto eleggere presidente della Vigilanza dalla maggioranza di governo, in contrasto con la linea del proprio partito. Una linea condivisa dal partito socialista francese che al termine del suo statuto annovera una «carta etica» molto "leggera". L'unica cosa che sta a cuore ai socialisti d'oltralpe è il divieto di cumulo delle cariche. E così le regole etiche coincidono con i criteri di incompatibilità tra le funzioni nei diversi livelli di governo locale, dipartimentale, regionale e nazionale. Il resto è affidato al patto di reciproca lealtà tra iscritti.

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