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Se le elezioni diventano più di una ipotesi

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Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2010 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 31 luglio 2010 alle ore 08:38.

Quarantotto ore dopo la spaccatura, le elezioni anticipate sono più di un'ipotesi. A molti sembrano lo sbocco naturale di un pasticcio politico creato da un calcolo precipitoso. Altro che governo rafforzato. Più che al rilancio di un esecutivo più saldo, pare di assistere alle convulsioni di fine regno. Il problema non è se la legislatura vedrà il 2013, ma il come e il quando si arriverà al voto. Un itinerario impervio in cui a decidere la rotta non è Palazzo Chigi, bensì il capo dello stato.

D'altra parte, i sedici anni di storia del centrodestra, gli anni del bipolarismo, si sono giocati in buona misura sul rapporto tra Berlusconi e Fini. Ora che quel rapporto è andato in polvere comincia un'altra vicenda, non sappiamo se più o meno fortunata. Di certo la risposta del presidente della Camera al suo ex alleato equivale a una dichiarazione di guerra. Non stupisce, naturalmente, visto che stiamo assistendo a una scissione. Ma accusare il presidente del Consiglio di tendenze "illiberali" cos'è se non l'annuncio di un conflitto senza esclusione di colpi?

L'espressione "illiberale" contiene in sintesi l'intero rosario di accuse e polemiche rivolte al premier nel corso del tempo: populista, poco rispettoso della Costituzione e del Parlamento, autoritario, aziendalista e padronale... Se Fini in questi anni ha cercato - non sempre riuscendovi - di definire l'identità della "sua" destra moderata in antitesi all'altra destra berlusconiana, ora è libero di accentuare i toni. Anzi, ha il dovere di farlo perché deve dimostrare in fretta di poter essere un'efficace alternativa al leader di Arcore. Non sarà un'impresa facile, ma è l'unico sentiero che il presidente della Camera è in grado di percorrere per rovesciare a suo favore una situazione scabrosa.

Si conferma così quello che era chiaro fin dal primo momento. Per il governo diventa tutto più difficile. O meglio: sarà il presidente del Consiglio in prima persona a trovarsi sottoposto alle forche caudine del nuovo gruppo finiano. Che ne sarà, per esempio, del processo breve e di tutte quelle misure d'impatto giudiziario che per il premier sono essenziali, anche in vista della pronuncia della Corte costituzionale sul legittimo impedimento? Qui si dovrà misurare la forza parlamentare dalla nuova destra di "Futuro e Libertà", ma la sicurezza con cui ieri Fini ha parlato lascia intuire che egli ritiene di controllare agevolmente quei 30-34 deputati di cui si è detto. Destinati a essere decisivi. La lealtà di costoro verso il governo riguarda "l'interesse generale": ossia, interpretiamo, la politica economica e la politica estera o della difesa. Tutto ciò che configura la coesione nazionale cara a Giorgio Napolitano.

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Già sul federalismo fiscale niente è scontato, considerando la vocazione "patriottica" e quindi poco amichevole verso la Lega che il presidente della Camera in passato ha manifestato e che non ha certo motivo di correggere ora. Per il resto si entra in un terreno inesplorato: i continui richiami alla "legalità" suonano come altrettanti tentativi di delegittimare il premier nel suo tormentato rapporto con il potere giudiziario. Nulla di nuovo, ma ora tutto è più chiaro.

A questo punto la permanenza di Fini sulla poltrona di presidente della Camera, cui egli ha diritto sul piano del diritto parlamentare, è destinata a innescare uno scontro politico permanente, ai limiti dell'ostruzionismo da parte del Pdl. Il che oggi costituisce la maggiore incognita della nuova situazione che si è creata. Non a caso il richiamo del capo dello Stato alla necessità di "preservare la continuità istituzionale" è un invito a tenere separate la sfera della politica da quella delle istituzioni. Se si arrivasse a mescolarle più di quanto già non sia, si creerebbe un pericoloso corto circuito. Una Camera bloccata, paralizzata dall'inedito conflitto tra il presidente dell'assemblea e la sua maggioranza di provenienza, sarebbe un rebus di difficile soluzione per chiunque. Anche per il Quirinale.
Senza contare che proprio questa paralisi potrebbe costituire la "pistola fumante", ossia l'occasione cercata da chi vuole le elezioni anticipate per ottenere lo scioglimento del Parlamento.

Non è un mistero che Berlusconi si tiene stretta la carta del voto. È nel suo stile guardare alle urne come via d'uscita all'eterna difficoltà di governare con efficacia. Il blocco di Montecitorio potrebbe costituire, al momento opportuno, un eccellente pretesto. Ma in quali condizioni politiche il premier e il suo governo arriveranno all'appuntamento? Quale sarà la posizione di Bossi che vede allontanarsi l'obiettivo strategico del federalismo fiscale? Sono tutte domande senza risposta.

Peraltro il premier non può non sapere che non esiste una "clausola di dissolvenza" automatica delle Camere. Insomma, non è lui a decidere. Il presidente della Repubblica avrebbe il dovere costituzionale di verificare prima l'esistenza di altre maggioranze. E sotto questo aspetto la spaccatura del partito che ha vinto le elezioni del 2008 crea un fatto nuovo tutt'altro che trascurabile. La nota di ieri sera è il primo segnale che il Quirinale sta osservando la scena. Si torna quindi al gruppo finiano, alla sua consistenza, alla capacità o meno di svolgere con abilità un ruolo parlamentare. Magari di attrarre altri deputati desiderosi di rallentare la fine prematura della legislatura, in vista di una riforma della legge elettorale. Il come e il quando del voto anticipato sono ancora da definire.

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