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Perde colpi l'industria globale

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 agosto 2010 alle ore 08:04.

Un'Eurolandia robusta, una Cina in brusca frenata, gli Stati Uniti che continuano la loro lenta decelerazione raffreddando l'economia globale.
È quasi un mondo alla rovescia quello che appare dagli indici Pmi e Ism sull'attività manifatturiera. I sondaggi di luglio risultano infatti in crescita nella Uem (a 56,7 rispetto a 56,5 della prima lettura di metà mese e a 55,9 di giugno), quasi in territorio recessivo a Pechino (49,4, sotto la soglia dei 50 punti, l'indice della Hsbc; a 51,2 da 52,1 quello semiufficiale) e in lieve frenata negli States (55,5, oltre le attese, da 56,2). L'indicatore globale, ancora in zona espansione, è quindi sceso a 54,3 - il minimo da otto mesi - da 55,0 segnando un incremento solo nella componente occupazione.

Sono dati importanti, da interpretare bene. Liberano un po' gli economisti privati dal triste destino di non conoscere, a differenza dei medici, le condizioni attuali del loro paziente - che per giunta, cambia continuamente natura - ma soltanto quelle del passato, con qualche segnale su quanto potrebbe accadere. I Pmi sono la sola importante eccezione. Anche se non possono essere precisi, permettono di avere un'idea chiara di cosa sta accadendo: spesso - ma non sempre - il Pil segue la strada da loro tracciata.

Accadrà così per la Cina, che sembra non solo frenare ma - a sentire la Hsbc - anche arretrare? Forse no. Forse in questo caso il Pmi si sta "sganciando" dall'economia reale. Glenn Maguire di Société Générale aveva previsto un simile risultato e - qualche giorno fa - aveva studiato l'affidabilità di questi indici nel prevedere il Pil. Non è bassa - a parte, forse, proprio per l'Hsbc - anche se il miglior indicatore è un altro: l'Mni, già annunciato in crescita da 68,2 da 59,8 di giugno e 69,9 di maggio(ha una correlazione di 0,80 con il Pil "attuale" e di 0,74 con quello del trimestre successivo).

Soprattutto, i tre indici sono molto stagionali, variano in modo regolare anno dopo anno (e questo va tenuto presente anche nel valutare l'indice globale, segnato dall'andamento cinese). «Dal 2005, sono stati tutti in calo tra maggio e giugno, e il 2010 non fa eccezione», spiega Maguire. Questo non significa che la Cina non stia un po' frenando - è in fondo l'obiettivo del governo - «ma la prospettiva fondamentale resta molto più un atterraggio morbido che una seconda recessione».

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Diversa è l'altra apparente anomalia, quella europea. Qui il Pmi invita piuttosto a rivedere le prospettive su Eurolandia. L'indice - sottolinea Nick Verdi di Barclays - viaggia al di sopra della media di lungo periodo («di una deviazione standard»), guidato dal dato tedesco (61,2 vicino al record storico di 61,5); ma anche - sorpresa! - da quello greco che si sta riavvicinando a larghi passi a quota 50, sopra la quale l'indice segnala espansione, anche se resta ben al di sotto della media di lungo periodo.

La ripresa sembra ampia. Tutti gli indicatori nazionali, a parte marginalmente, quello irlandese, sono in crescita. Quello italiano è salito a 54,4, da 54,3, ed è ai massimi da maggio 2007. È molto forte anche la componente nuovi ordini, quella che si proietta maggiormente nel futuro, e si è rafforzata quella sull'occupazione, che - secondo le aziende interpellate dal sondaggio - continua a contrarsi solo nei paesi in forte crisi (Grecia, ma anche Irlanda e Spagna) ma anche, e in modo sensibile, in Francia. Le aziende manifatturiere hanno iniziato ad assumere, e per la prima volta da gennaio 2008, anche in Italia, sia pure con un incremento lieve - spiega la Markit/Adaci, che ha calcolato l'indice - e «concentrato interamente nel settore dei beni di investimento».

Il buon andamento del manifatturiero non può però far dimenticare che il Pmi sui servizi - i cui dati saranno pubblicati oggi - potrebbe segnalare un andamento divergente tra i paesi del cuore di Eurolandia (Germania e Francia), dove potrebbe essere cresciuto e quelli periferici (compresa l'Italia) dove potrebbe essere invece calato.

È un po' una conferma, invece la frenata dell'indice americano, che pure è risultata inferiore alle previsioni. Il presidente della Fed Ben Bernanke, dopo la pubblicazione degli indicatori, ha non a caso ripetuto un messaggio lanciato la scorsa settimana: ha parlato di «ritmo moderato» della ripresa, di venti contrari nel breve termine, e del «considerevole tempo» che sarà necessario per recuperare gli 8,5 milioni di posti di lavoro perduti.

Gli indici Pmi (negli Usa si chiamano Ism, dal nome del l'istituto che li elabora) gli danno ragione. L'indicatore complessivo sul manifatturiero è ai minimi da dicembre e rivela, al suo interno, quell'aumento delle scorte che aveva già preoccupato la settimana scorsa quando sono stati pubblicati i dati del Pil. Anche questi indicatori vanno però letti con attenzione. «La componente "magazzini dei clienti" (delle aziende intervistate, ndr) è rimasto a un livello basso, di 39, e suggerisce che nella catena della produzione non si stanno accumulando scorte eccessive», spiega Michael Feroli di JPmorgan, che sottolinea anche il livello del sottoindice sull'occupazione, a 58,6, «alto sotto il punto di vista degli standard storici», ma limitato a un comparto ormai relativamente piccolo, negli Usa.

A preoccupare è piuttosto il fatto che i nuovi ordini crescano a una velocità inferiore rispetto al passato: la componente segna ancora espansione; a quota 53,5 è però decisamente inferiore al 58,5 di giugno e al 65,7 di maggio. Il futuro degli Usa sarà forse un po' più difficile.

riccardo.sorrentino@ilsole24ore.com

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