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La ex deputata afghana costretta a indossare il burqa spiega perché «Obama è come Bush»

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Questo articolo è stato pubblicato il 13 agosto 2010 alle ore 16:44.

KABUL. Time Magazine l'ha inserita quest'anno nella lista delle cento persone più influenti del mondo. Invece di ringraziare, Malalai Joya, classe 1978, se l'è presa. «Senza accennare alla mia lotta contro l'occupazione dell'Afghanistan da parte di Stati Uniti e Nato, Time ha creato una falsa immagine di me, il che è vergognoso». Non scende a compromessi con Talebani e signori della guerra del suo paese che la vogliono morta, figuriamoci se fa sconti in cambio di una foto su carta patinata. Malalai Joya vive sotto scorta e cambia continuamente casa.

Per incontrarla a Kabul occorre digitare almeno quattro diversi numeri di telefono. Solo un'ora prima dell'incontro si riceverà un indirizzo. Arrivati all'appuntamento si è prelevati dal capo delle sue guardie del corpo. Malalai raggiunge l'abitazione anonima nella periferia della capitale afghana, nascosta sotto un burqa. Pare incredibile che proprio lei, simbolo della lotta per l'affermazione della democrazia nel suo paese e la difesa dei diritti delle donne, sia costretta a indossare, nella calura estiva, quel pastrano di sintetico azzurro per salvarsi la vita.

Anche col marito s'incontra tra mille peripezie. Una precauzione dovuta. È sopravvissuta a quattro attentati. «Tante donne afghane oggi mettono il burqa per sentirsi al sicuro per strada» esordisce. «La politica degli Usa e della Nato è stata quella di sostituire i talebani con un regime fondamentalista in cui siedono signori della guerra. La loro mentalità verso le donne non è opposta a quella talebana. Si vestono all'occidentale, ma non sono meno misogini". Nel 2007 Malalai Joya, eletta in Parlamento nel 2005, è stata sospesa dalla carica di deputata per aver paragonato a una stalla o uno zoo il Parlamento afghano, che in nome della riconciliazione nazionale aveva graziato dei criminali di guerra.

«L'attuale regime afghano è un fantoccio sostenuto dall'esterno in cui siedono mafiosi, corrotti e trafficanti di droga. Ahmad Wali Karzai, fratello del presidente (Hamid) è uno tra i più noti signori dell'oppio». Fa nomi e cognomi Malalai. Cita anche Izzatullah Wasifi nominato da Karzai a capo della lotta contro la corruzione nel 2007. «È uno che è stato condannato per traffico di droga negli Usa. C'è altro da aggiungere, a parte che potremmo continuare con l'elenco?».

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Chiarisce la sua contrarietà alla presenza delle truppe Nato nel suo paese ricordando che la democrazia non è arrivata da nessuna parte con gli eserciti. «Nove anni di intervento internazionale non hanno certo migliorato le condizioni di vita della popolazione afghana», aggiunge Malalai. Nulla di cui meravigliarsi, sottolinea. «La presenza straniera in Afghanistan è dovuta alla geopolitica del paese, al crocevia tra Pakistan e Iran, oltreche potenziale rotta per il gas delle repubbliche dell'Asia centrale. A questo si possono sommare le recenti scoperte sulle ricchezze del sottosuolo afghano. La zona di Helmand, dove sono concentrati americani e britannici, custodisce uranio», dice Malalai. Che critica la mancanza di coerenza di Obama, che non si è mostrato, nella sostanza delle sue scelte strategiche nella regione, diverso da Bush.

Le elezioni legislative di settembre? «Se avessimo un governo democratico almeno per il 50%, magari se ne potrebbe parlare. Il prossimo parlamento sarà affollato ancora da gente con le mani sporche di sangue. Certo sarà permessa l'elezioni di qualche democratico. Io stessa sono stata esponente dell'istituzione parlamentare. A queste elezioni però non partecipo per non dare una falsa speranza al mio popolo». Va ricordato che Malalai è entrata in politica nel 2003, a soli 25 anni, delegata a rappresentare la popolazione dei villaggi della provincia di Farah alla Loya Jirga, l'Assemblea dei capi tribù afghani incaricata di ratificare la Costituzione.

Sul coraggio delle afghane, tra cui non manca chi riveste ruoli istituzionali di rilievo, come Maria Bashir, procuratore generale a Herat, dice: «Le donne che si battono ogni giorno per rendere l'Afghanistan un paese migliore e democratico, che difendono i diritti umani, sono tante. Ma dei milioni di dollari spesi nel paese in nome dei loro diritti non si vedono i frutti. Le ragazze dei villaggi sono ancora condannate all'ignoranza e ai matrimoni forzati». I volti delle candidate alle elezioni di settembre, fa notare Malalai, non hanno nulla a che vedere con la realtà delle donne afgane. «Le vedi sui manifesti? Facce carine, ben vestite e ben truccate. Servono da paravento a un regime che ne nega invece i diritti».

La speranza per l'Afghanistan, per Malalai, sono giovani come la sua guardia del corpo, Faramaretz, che rompendo un tabù ha sposato una giovane quindicenne che ha subìto violenza di gruppo. Con il ritiro delle truppe straniere che sostengono i warlords governativi, il popolo afghano potrà combattere un solo nemico anzichè due, dice convinta Malalai.

«Non c'è dubbio che l'Afghanistan abbia bisogno di aiuto da parte di altri paesi per risollevarsi. Ma non dell'aiuto che oggi ingrassa una classe di corrotti e mafiosi. All'occidente dico: smettetela di armare i signori della guerra e negoziare con i talebani. Questa è gente da mandare alla Corte penale internazionale dell'Aja». La storia della vita in bilico di Malalai Joya, come quella del suo paese, è narrata nel libro "Finchè avrò voce" edito in Italia da Piemme e pubblicato in 18 paesi.

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