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Cibo, acqua e contatti con l'esterno. Ecco come i minatori cileni intrappolati possono sopravvivere

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Questo articolo è stato pubblicato il 25 agosto 2010 alle ore 07:46.

I 33 minatori intrappolati a 700 metri di profondità «non sono messi male». Sono tanti, hanno cibo, acqua, e la terza preziosa risorsa, l'informazione. Riescono a comunicare con l'esterno, sanno che si sta lavorando per salvarli e questo elimina la paura più grande «l'ignoto». Paolo Legrenzi, professore di psicologia all'università di Venezia, segue la vicenda della miniera cilena su Cnn. Ricorda un altro caso molto studiato dai suoi colleghi, avvenuto sempre in Cile nel 1972: i sopravvissuti dell'aereo precipitato a ottobre sulle Ande e salvati a Natale. Costretti a mangiare i resti dei passeggeri morti, la loro storia ispirò il film «Alive».

«Quei sopravvissuti avevano il vantaggio di stare all'aperto, a contatto con la natura. Rimanere sottoterra è sicuramente la situazione più angosciante ma i minatori non sono un gruppo che compete per poche risorse, hanno da mangiare e da bere. In più sanno di essere stati individuati dai soccorritori e si conoscevano già». Al contrario di persone messe insieme dal caso come i naufraghi in un'isola deserta o i sopravvissuti a un disastro aereo, i minatori possono sfruttare «l'identità professionale, sanno di fare un lavoro rischioso e che possono morire sottoterra come capita ed è capitato ai minatori in ogni parte del mondo». Non sono allenati come astronauti ma hanno «la consapevolezza del loro destino», prevale così «l'entusiasmo di essere vivi».

Legrenzi osserva che questa convivenza forzata sottoterra sarà «un grande esperimento naturale», ricorda che l'uomo è una specie «con grande capacità di sopravvivenza e adattamento» ma giudica saggia la decisione dei soccorritori di non dire agli intrappolati che ci vorranno tre-quattro mesi per creare una via d'uscita. «Quelli che stanno sotto devono avere fiducia in quelli che stanno sopra: meglio non fare promesse che non si è assolutamente certi di poter mantenere. Ricordo che Alfredino Rampi (il bambino che cadde e morì in un pozzo vicino a Frascati nel 1981 ndr) a un certo punto si fidava più dei pompieri che dei suoi genitori perché sapeva che solo quelle persone lo potevano aiutare». È utile invece alleviare il senso di impotenza. «Hanno chiesto ai minatori di collaborare a togliere i detriti, questo li aiuterà».

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La situazione psicologica dei minatori - continua Legrenzi - è la stessa di quella in cui si possono trovare i soldati in una guerra moderna con gli eserciti non più divisi da una frontiera. Non a caso queste situazioni sono state studiate da psicologi israeliani. «Prenda un gruppo di quattro soldati israeliani che pattugliano i confini con il Libano e a un certo punto si ritrovano in una zona nemica: sanno che se si muovono e comunicano possono essere intercettati e catturati. Devono rimanere immobili». Anche se sopra i loro elmetti splende il sole, la sensazione di isolamento è uguale. «Sono colleghi di lavoro che si ritrovano in un ambiente ostile. La stessa cosa potrebbe succedere ai soldati in Afghanistan».

Paradossalmente i minatori cileni non stanno peggio dei newyorkesi paralizzati dal blackout del 1977, spiega Legrenzi. Si può obiettare che il buio durò solo 24 ore. «Nessuno sapeva quanto sarebbe durato quando è andata via la luce e si diffuse il panico che come si sa è contagioso. In questo caso ci vuole solo molta pazienza».
angela.manganaro@ilsole24ore.com

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