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Così Wen Jiabao ha scosso il partito: servono riforme politiche che accompagnino lo sviluppo

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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2010 alle ore 16:34.

«Serve una riforma del sistema politico che accompagni lo sviluppo economico del paese». Lo ha detto domenica scorsa il premier cinese Wen Jiabao durante la celebrazione a Shenzhen del 30° anniversario dell'istituzione delle Zone Economiche Speciali. La scelta del luogo non è casuale: da questa città è infatti partita quella crescita vertiginosa che ha portato recentemente la Cina a scalzare il Giappone dal secondo posto della classifica delle economie più sviluppate.

Un crescita dovuta all'alta propensione al risparmio dei cinesie non - come vorrebbe una leggenda dura a morire - al fatto che la Cina sia un paese governato da un regime dittatoriale. «Senza riforme del sistema politico - mette in guardia Wen - saranno vanificati i risultati delle riforme economiche e non sarà possibile raggiungere i nostri obiettivi di modernizzazione». Un richiamo che è anche un omaggio alla politica di apertura lanciata dal "piccolo timoniere" Deng Xiao Ping. Secondo il leader cinese - che con il suo presenzialismo si è guadagnato l'appellativo di "primo ministro del popolo" - il paese deve «risolvere i problemi di concentrazione eccessiva del potere, creare le condizioni per permettere al popolo di criticare e di controllare il Governo e reprimere con fermezza la corruzione». Deve, inoltre, cambiare registro in tema di diritti umani garantendo i diritti democratici e legittimi della popolazione. Parole che vanno naturalmente calate nel contesto del cosiddetto Impero di mezzo, dove "riforme politiche" non fanno necessariamente rima con elezioni e suffragio universale, ma che suonano comunque quantomeno insolite in una realtà caratterizzata da cambiamenti lenti.

«Quello di Wen Jiabao - ha detto al quotidiano francese Le Figaro Hu Xindou, docente all'Istituto di Tecnologia di Pechino - è un appello lanciato alla maggioranza conservatrice affinché raccolga l'apertura di Deng Xiao Ping e chiuda definitivamente l'era di Mao Tze Tung». Un modo, insomma, per stimolare un apparato che ha abbandonato le timide velleità di democratizzazione manifestate appena tre anni fa, nel corso dell'ultimo congresso (ottobre 2007). Due esempi su tutti: le promesse di eleggere i rappresentanti locali del partito sono rimaste praticamente lettera morta - e tali probabilmente sono destinati a rimanere almeno fino al congresso del 2012 - così come l'idea di creare «zone politiche speciali» per sperimentare una modesta democratizzazione nelle regioni più sviluppate del paese.

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«Gli ultimi tre anni hanno visto un rafforzamento degli oppositori delle riforme», sottolinea sempre a Le Figaro, Wang Guixiu, insegnante alla scuola di partito. Lanciando anche un'accusa piuttosto pesante: «La classe dirigente attuale non ha avuto coraggio politico, preferendo proteggere i suoi interessi economici».

Le denunce e lo stesso appello di Wen Jiabao rischiano, però, di restare inascoltati. Anche a causa del "silenziatore" attivato dalla stampa di regime.

Sul Sole in edicola mercoledì 25 agosto analisi e approfondimenti sul rapporto tra democrazia, diritti umani e sviluppo economico

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