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Economia Lavoro

Uno svantaggio crescente su Germania e Francia

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 ottobre 2010 alle ore 08:00.

Da dieci anni, con molta costanza, la produttività del lavoro italiana scivola a tassi medi dello 0,5 per cento. Come un rubinetto che perde, ogni anno lascia sul terreno un po' di capacità competitiva che vista su tutto il decennio spaventa. Spaventa per il differenziale che ha creato con la Germania dove la produttività è cresciuta del 16% o con la Francia dove è salita di quasi il 20% mentre l'Italia sfiora appena il 3 per cento. E più allarmanti sono le percentuali del "clup", una parola che sembra fuggita da un glossario dei fumetti, ma che indica il nostro male oscuro.

È il costo di lavoro per unità di prodotto – ossia quanto si produce in un'unità di tempo – che è diventato una voragine: in dieci anni è aumentato del 20% mentre la Germania lo ha ridotto di 10 punti e la Francia di otto. E c'è un'ultima accelerazione che preoccupa. L'Istat, nella rilevazione dello scorso agosto, ha registrato un picco negativo della produttività del lavoro del -2,7% (2007-2009), perfino più ampio nell'industria (-3,9%).
Cifre note alle organizzazioni imprenditoriali e ai sindacati che domani si siederanno al tavolo del negoziato voluto da Emma Marcegaglia. Un segno della non-rassegnazione delle imprese a un dato che ormai viene trattato come irrecuperabile. E certo le ragioni per considerarlo tale ci sono. Perché il clup deriva dalla bassa crescita della produttività che, a sua volta, è il terminale della lentezza del sistema-Italia. Il punto infatti non è solo il lavoro ma sono lavoro e capitale insieme a scontare inefficienze ed entrambi risentono di una serie di fattori interni ed esterni alle aziende.


Partiamo da ciò che non funziona fuori dai cancelli: un'amministrazione che crea incertezze e ritardi, il fisco pesante, il più alto costo dell'energia, la carenza di infrastrutture e, non ultimo, i bassi investimenti in innovazione e ricerca che frenano lo spostamento dei fattori produttivi dai settori in declino a quelli in espansione. Un quadro che non consente di raccogliere alcune sfide, ad esempio la "green economy", molto gettonata dalla politica ma che diventa un nonsense se mancano i fondamentali. Sul Sole 24 Ore del 15 settembre, l'economista Barry Eichengreen ha raccontato il paradosso della crescita di produttività dopo la grande depressione per arrivare a suggerire ai policy makers sgravi fiscali per la ricerca o investimenti in infrastrutture, perché la crisi di oggi può essere ancora opportunità.

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Tags Correlati: Barry Eichengreen | Bundesbank | CGIL | Cisl | Concorrenza | Emma Marcegaglia | Francia | Germania | Giulio Tremonti | Istat | Italia | Jackson Hole | Maurizio Sacconi | Uil

 

C'è poi la dimensione – piccola e media – delle aziende italiane a rendere più pesanti i fattori esterni mentre la grande impresa soffre di più i fattori "interni" e – tra questi – un sistema di relazioni sindacali fuori tempo. È questo il focus del tavolo di domani che metterà sotto i riflettori quello che Giorgio Barba Navaretti, docente di economia all'università di Milano, chiama invece il «paradosso italiano» e cioè un clup che aumenta mentre il costo del lavoro resta fermo con «i salari lordi medi inferiori a quelli europei». Qual è il punto? «Che la competitività italiana soffre per il modo in cui il lavoro viene utilizzato nei processi produttivi e non per il suo costo». È sempre Barba Navaretti a rispondere e a suggerire tre strade, alcune già intraprese da aziende e Cisl-Uil. La prima è quella innescata dalla Fiat a Pomigliano, ossia una riorganizzazione del lavoro per consentire un utilizzo pieno delle capacità produttive delle fabbriche. La seconda riguarda il superamento del dualismo del mercato del lavoro tra outsiders e insiders, la terza riguarda la struttura contrattuale con un baricentro spostato a livello aziendale o territoriale (anche questa già avviata ma senza la Cgil). Maurizio Sacconi ama citare Axel Weber, il presidente della Bundesbank, che un mese fa ha così spiegato la realtà tedesca ai banchieri centrali riuniti a Jackson Hole: «Molto è cambiato da quando in Germania si è passati da contratti di lavoro per settore e su scala nazionale a contratti aziendali. Gli aumenti di produttività liberati sono anche maggiori di quanto appaia dalle stime». C'è da scommettere che l'esempio della Germania questa volta non irriterà Giulio Tremonti.

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