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Economia Lavoro

Laboratorio Vw, all'operaio 2.800 euro lordi

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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2010 alle ore 06:35.

A Wolfsburg si dice che se un giorno dovesse chiudere la fabbrica di Volkswagen, l'impianto automobilistico più grande d'Europa, in città si alzerebbero anche i marciapiedi perché non resterebbe molto altro da fare. Se mai ci sarà, quel giorno sembra molto molto lontano: i pedoni possono stare tranquilli per almeno una generazione, che di questi tempi non è poco. Nella capitale del Maggiolino, considerata il laboratorio delle relazioni industriali di Germania, non si registrano licenziamenti da circa 15 anni.

In questo centro della Bassa Sassonia, e non in Repubblica Ceca, Turchia, Romania, si continuano a produrre Touran, Tiguan, Golf, Golf Plus al ritmo di 3mila veicoli al giorno: «E ancora facciamo fatica a stare dietro agli ordini», dice Franco Garippo, una vita in Vw, sindacalista di IG Metall e membro del consiglio di fabbrica.

Non sono mancati traumi e scossoni, a Wolfsburg, ma la flessibilità con cui lavoratori e dirigenti hanno sempre reagito alla ciclicità del settore ha permesso sia dei guadagni di competitività sia la salvaguardia dell'occupazione. I tedeschi, che a distanza ci sembrano (a torto) così rigidi, in realtà hanno dimostrato pragmatismo e visione di medio-lungo termine. Quando, all'inizio degli anni Novanta, si dovette fronteggiare un calo drastico della domanda e si abbassò paurosamente la capacità produttiva degli impianti, i "creativi" di Wolfsburg inventarono la settimana corta di 28,8 ore, e una riduzione del 20% della retribuzione standard, per evitare il licenziamento di 30mila dipendenti. In molti gridarono all'inizio della fine di Volkswagen, ma lo slogan «del lavorare meno per lavorare tutti» traghettò il gruppo in acque più tranquille. Fino a quando tutti, nella primavera del 2006 - con la prospettiva delle delocalizzazioni, l'aumento della competizione da parte dei produttori asiatici, un certo stallo nei guadagni di competitività e risultati non brillanti del marchio Vw - decisero che per esigenze di mercato si sarebbe tornati all'antico, alle 35 ore. Ovviamente a parità di salario.

Le 35 ore rappresentano però una cornice, un quadro di riferimento all'interno del quale il primo gruppo automobilistico europeo ha sperimentato vari modelli di flessibilità del lavoro. Sentendo il fiato sul collo di Toyota e disponendo di siti produttivi dappertutto nel mondo e in particolare a non molti chilometri dai patri confini (Repubblica Ceca con Skoda) i dirigenti, dall'inizio del nuovo millennio la direzione del gruppo ha indetto dei veri e propri bandi interni tra le varie fabbriche per la produzione dei nuovi modelli. Nel 2001 fu proprio Wolfsburg a vincere la gara per la Touran grazie a una formula che allora fece scalpore e venne pubblicizzata coi numeri magici di 5000x5000. Stava ad indicare l'assunzione di 5mila giovani retribuiti a 5mila marchi al mese, equivalenti a circa 2.500 euro, salario inferiore del 20% agli standard Volkswagen e che contemplava fino a un massimo di 42 ore settimanali.

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Tags Correlati: Consiglio di fabbrica | Europa | Franco Garippo | IG Metall | Imprese | Volkswagen

 

Ma quanto guadagna oggi un operaio Vw? L'IG Metall di Wolfsburg ha dato al Sole 24 Ore alcuni parametri di riferimento. Un semplice addetto alla catena di montaggio porta a casa uno stipendio base di 2.756 euro lordi, pari a 19 euro all'ora sulla base di una settimana di 33 ore, gli straordinari notturni comportano una maggiorazione del 45% mentre quelli pomeridiani del 30%. Un addetto alla manutenzione dei macchinari, anche qui remunerazione base, guadagna 3.300-3.500 euro al mese. Il quartier generale di Wolfsburg impiega 55mila addetti, di cui solo 17mila direttamente nella produzione. Già con l'accordo tra impresa e sindacato del 2004 ci fu un sostanziale congelamento dei salari in cambio dell'impegno a mantenere inalterati (circa 100mila unità) gli occupati delle fabbriche tedesche fino al 2011. Non fu un assegno in bianco, ma un patto in cui Volkswagen definì con precisione contrattuale l'ammontare e la destinazione degli investimenti destinati ad alimentare l'occupazione: «Siamo riusciti a negoziare una proroga delle garanzie sui posti di lavoro fino al 2014, con nuovi impegni sugli investimenti», aggiunge Garippo. Il sindacalista è però scettico sulla possibilità di trasferire in blocco il modello della flessibilità alla Volkswagen negli stabilimenti italiani.

La flessibilità, in effetti, è la manifestazione più concreta di un modello di relazioni industriali che poggia sul consenso e a sua volta alimenta il meccanismo della Mitbestimmung, la cogestione. Nata nel primo dopoguerra e rivista in maniera sostanziale nel 1976, prevede che i rappresentanti dei lavoratori occupino metà delle poltrone dei consigli di sorveglianza delle grandi società, dove si discutono le strategie di gruppo, le remunerazioni dei dirigenti e si approva il bilancio. Grazie alla cogestione, a seconda dei tempi e delle convenienze vissuta come una manna o come una camicia di forza, e a una contrattazione salariale sempre più decentrata per le piccole e medie aziende, la vera riforma del mercato del lavoro l'hanno fatta dal basso imprese e sindacati. Gli aumenti di produttività dovuti a un ventennio di moderazione salariale e realismo bipartisan nascono dalla cultura e la formidabile competitività del made in Germany è figlia di una cultura centenaria.
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