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Questo articolo è stato pubblicato il 09 novembre 2010 alle ore 07:59.
Tutti i momenti che precedono l'esplosione di una crisi di governo diventano i più creativi soprattutto per chi è ostile al voto anticipato. E delle volte le ragioni per evitarle sono plausibili: la congiuntura economica, lo spettro degli speculatori internazionali, l'attenzione allo spread tra i nostri titoli di stato e quelli tedeschi. E infatti, in qualsiasi crisi post-euro, l'unica regola ferma è stata quella di approvare prima la legge finanziaria, che ora si chiama di stabilità, ed evitare l'esercizio provvisorio. Regola che nessuno mette in discussione nemmeno oggi. Si parte da qui, allora, dall'appello di Napolitano. La crisi non scoppierà a "finanziaria aperta" ma verrà rinviata verso la fine di dicembre quando i conti saranno stati blindati e altri provvedimenti potranno prestare meglio il fianco allo strappo parlamentare. Dato per scontato il timing, sul resto si ragiona in termini di calcolo di probabilità.
E allora cominciamo con l'ipotesi che ieri in Translantico tra parlamentari – seniores e peones – era la più quotata: le elezioni anticipate. Il voto a marzo resta l'esito più probabile – a giudizio di molti e degli stessi che non lo vorrebbero – per una serie di ragioni. Tra cui anche quella di un'opposizione non sufficientemente forte ma piuttosto divisa, debole e in calo nei sondaggi, che non sarebbe quindi in grado di costruire e sostenere politicamente la trama alternativa al voto. Con una sana autocritica è lo stesso Pierluigi Castagnetti, ex Dc ora Pd ad ammettere che «la nostra mancanza di tono non aiuta: il nostro problema è recuperare i 4 milioni di voti persi dal 2008».
Ma insomma, al netto di un Pd che fa fatica e che quindi viene considerato da Fini un partner scomodo e controproducente in un'operazione anti-urne, le ragioni che rendono al momento le elezioni lo scenario più gettonato sono anche altre. La prima: i numeri. Oggi non esiste al Senato una maggioranza in grado di esprimere un governo diverso. Anche il "ribaltone" – da Fini a Di Pietro passando per Bersani e Casini – oggi a Palazzo Madama non avrebbe numeri. Tra i finiani c'è chi fa conto su nuovi arrivi, magari puntando sul fatto che i peones non vogliono la fine della legislatura per non perdere il diritto alla pensione, ma comunque l'operazione andrebbe tutta costruita e i margini sono stretti. Secondo: ancora i numeri. I sondaggisti sono abbastanza chiari nel dire che un governo senza Berlusconi e Bossi sarebbe un boomerang per Gianfranco Fini e il suo Futuro e libertà. Per non parlare di quanto farebbe – invece – bene al premier che potrebbe usare il "ribaltone" come un lifting politico cancellando la stanchezza e la delusione di oggi.