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Benitez, Ibra, Krasic. Le pagelle dei protagonisti (nel bene e nel male) del weekend di sport

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2010 alle ore 14:42.

Benny che balla – Se la partita dell'Inter a Verona (voto 4) è stata la risposta alla settimana dei Grandi Confronti (voto 3), il futuro è già scritto: la storia di Rafa Benitez su quella panchina è finita qui, schiantata contro la cocciuta impazienza dell'allenatore spagnolo che ha avuto una fretta dannata di strappare il poster di Mourinho, di urlare al mondo che l'Inter è roba sua, che il passato è passato. Cosa che un presuntuoso al cubo come Mou nemmeno si era sognato di fare, tenendosi stretta per una stagione intera la squadra di Mancini in modo molto furbo. Vincendo uno scudetto e andando fuori per tempo in Champions League, come il suo predecessore. L'Inter di Mourinho infatti l'abbiamo vista per una stagione sola. L'impressione (qualcosa di più di un'impressione) è che ora anche i giocatori abbiamo mollato Benny per strada: del resto non è facile passare da uno che ti chiede l'anima ma ti garantisce in cambio massima protezione da ogni pressione esterna, a un allenatore normale. In questo però più di qualche responsabilità ce l'ha Moratti (voto 3,5) che è stato il primo ad esautorare Benitez subito dopo aver perso il derby, per poi difenderlo fragilmente al di là delle parole in settimana. Poi potrà restare per ragioni di portafoglio o di convenienza, ancora un'ora, un giorno, una settimana, o un pugno di mesi: dalla notte del derby Rafa Benitez è un ex. Almeno per Moratti, di sicuro.

Ibracadabra – Magia, tre punti e un altro passo verso uno scudetto ancora naturalmente lontanissimo ma ben presente nei pensieri milanisti, specie ora che si può cominciare a parlare di fuga. Ibrahimovic (voto 9) è l'Harry Potter degli scudetti: dove arriva impugna la bacchetta e lancia saette, senza che ci sia uno straccio di Voldemort in grado di fargli un baffo. Un fuoriclasse e un talismano: basta appenderselo al collo per sentirsi subito protetti contro ogni minaccia interna. L'Europa, le coppe, le grandi partite sono un'altra cosa, come stile e come modo di andare in campo: quando la qualità si alza, il centrocampo diventa più importante e non è più sufficiente fucilare il pallone verso il Grande Talismano. Lì bisognerebbe riuscire a cambiare un po' pelle e a trasformare Ibra in uno degli undici, senza pendere sempre e per forza dalle sue labbra. Ma per il fronte interno basta e avanza il dieci + 1. Ed è stato molto furbo Max Allegri (voto 8), non tanto a capirlo perché lo sanno anche i sassi, quanto a praticarlo coi modi giusti. Per paradosso e per sottile fortuna gli infortuni gli hanno allungato una mano, permettendogli di creare un centrocampo robusto e più folto, senza i preziosi quanto lenti ricami di Pirlo: meglio per ora i muscoli e le verticalizzazioni più violente di Seedorf, finto attaccante aggiunto. Così i conti tornano e Ibra si sente a casa sua e può fare la lente di ingrandimento gigante, come nell'Inter di Mancini che aveva più o meno questa stessa faccia. E per danzargli intorno meglio Robinho, più vivo e mobile di Ronaldinho, che ha tempo per pensare ai suoi programmi notturni seduto in fondo alla panchina. Certo con i quattro a centrocampo, anche Dinho sarebbe meno pesante da sostenere per la squadra e non ci sorprenderebbe nemmeno un po' trovarlo in campo dal primo minuto domani sera in Francia. Altra mano indiretta ad Allegri l'ha data Gianfranco Fini: al momento il Principale ha talmente tante altre cose cui pensare da accontentarsi dei tabellini e della classifica. Il partito "Più Ronaldinho per tutti" al momento può attendere.

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Furia serba – Che stavolta non è il comandante Ivan, se Dio vuole, ma un giocatore di pallone. Milos Krasic più che da un infortunio pare reduce da tre settimane in un wellness center altoatesino. Veloce, brillante, creativo e letale (voto 7,5): si riprende subito la Juventus facendo respirare i forzati del gol, non più costretti agli straordinari in sottonumero, dato che Amauri somiglia ogni giorno di più a un pensionato di Villa Arzilla che non a uno sportivo in attività. A questo proposito, Felipe Melo non perde occasione per ripetere che questa squadra non è ancora pronta per lo scudetto, non si capisce se per reale convinzione o per giocare a nascondino. E' comunque abbastanza vero: Roma, Milan e Inter (almeno in potenza) hanno più lampi, più talento, ma la Juventus è al momento la più affidabile, la più affamata e la più solida con quell'organizzazione così "militaresca" che il sergente Delneri (voto 7) le ha inculcato. Semplicità, efficacia e forza fisica: quelli che ci sono stanno bene e non permettono a nessuno di metterla sulla corsa e sui muscoli, se non vogliono fare una brutta fine come già il Milan in casa sua. Un dubbio: spesso le squadre di Delneri, fin dai tempi del miracoloso Chievo, sono partite sparate, volando fino a gennaio per poi planare sui ghiacci. Sarà diverso per questa Juventus? Un'idea per rispondere a F.Melo: il talento si compra al mercato e anche i gol. Quindi se Agnelli e Marotta avessero voglia di spaccare il salvadanaio e di pigliare subito almeno un paio di giocatori forti sul serio (diciamo un grande attaccante e un difensore esterno o una mezz'ala di livello europeo), ci sarebbe la possibilità di far saltare il banco italiano così incerto e volubile senza rimandare per forza ad altra data. Morale, a gennaio e solo allora scopriremo se Felipe Melo dice le bugie oppure no.

Fucili e bamboline – Ogni centro un peluche: il Barcellona ne ha portati a casa otto dal luna park di Las Palmas, il Real cinque alla fiera del Bernabeu dal baraccone del Athletic Bilbao coi tifosi baschi che ci metteranno un bel po' a inghiottire il rospo bianco. Il voto è 2 ad avversarie così inesistenti e genuflesse davanti alle grandi. Il nostro sarà anche un campionato nel quale si segna col contagocce, il più stitico d'Europa addirittura, tanto che solo i greci la sbattono meno in porta, mentre nella solita, eccessiva Olanda ogni partita diventa la sagra del gol. Ma siete proprio sicuri che tutto questo fiorire di reti sia sicuro sinonimo di qualità e spettacolo? O diventa piuttosto la fiera dell'ovvio?

Perdenti di successo – A proposito di "spettacolo sportivo", due parole che messe insieme in Italia suonano come il gesso sulla lavagna: da noi lo sport è battaglia per la vittoria, agonismo selvaggio e cultura del risultato. Questione di gusti, siamo così sempre, meno che in un caso: quello della Nazionale di rugby che più le prende secche più fa cassetta. Anche sabato a Firenze per una partita con zero possibilità di successo, c'era un pubblico che la Fiorentina se lo scorda per la maggior parte delle gare di campionato. Lasciate stare tutta la retorica che accompagna il rugby e il suo civilissimo pubblico, come se andare a vedere il calcio fosse sempre e necessariamente un viaggio all'inferno per un bambino (e non è così). La verità è che la gente fa la fila per l'Italrugby (voto 5) perché in Italia si giocano cinque-sei partite l'anno di altissimo livello, Sei Nazioni compreso e per merito delle avversarie: questo segna la differenza tra la normalità e l'evento. E quando l'evento arriva nella tua città, lo si va a vedere, fosse solo per la curiosità verso qualcosa di famoso e raro. Lo sport come un concerto, al netto del risultato. Lo sport come puro spettacolo: lo stesso spirito che porta gli italiani verso i palazzetti della Nba o gli stadi del football o del baseball ogni volta che mettono il naso in America. E pazienza se non ci capiscono un tubo. Intanto c'erano.

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