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A Cancun si lavora per lo stop alle deforestazioni ma si teme un più rapido scioglimento dei ghiacciai

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Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2010 alle ore 23:11.

CANCUN - Foreste, ghiacciai, oceani. In qualche modo, sono loro a parlare più forte e più chiaro al vertice climatico in corso a Cancun che chiuderà i battenti venerdì con un esito ancora largamente incerto. Ovviamente, per bocca di coloro che ci vivono a stretto contatto.
A parlare per le foreste, ci hanno pensato alcune centinaia di contadini messicani e sudamericani, che hanno inscenato una colorata (e rumorosa) protesta all'ingresso dell'albergo dove va in scena il summit Onu.

Stop alla deforestazione selvaggia
«I paesi ricchi devono dimezzare le emissioni di gas-serra – dice Jorge Ramirez, uno di loro, mentre impugna una bandiera verde – senza chiedere merci di scambio». Il riferimento è alle trattative Redd, che stanno per Reducing Emissions from Deforestation and Forest Degradation, possibile passaggio-chiave delle trattative in corso. L'idea di base è quella di finanziare i paesi tropicali e ottenere in cambio un progressivo stop alle deforestazioni, con importanti ricadute sull'ambiente: gli alberi si nutrono di anidride carbonica e tagliarli non è mai una buona idea.

Ogni anno, 13 milioni di ettari di foreste se ne vanno in fumo. E, anche se i paesi ricchi hanno sin qui promesso di mettere sul tavolo parecchi soldi (4,5 miliardi di dollari), c'è chi sostiene che per arrestare la deforestazione ne servano 30 all'anno. Ma anche chi suggerisce il contrario: «Mentre parrebbe che il Redd compensi i poveri – dice Alan Oxley, presidente dell'organizzazione non governativa World Growth – in realtà nessuno pensa all'impatto che questa misura avrà sulla sicurezza alimentare delle popolazioni». Senza contare, dicono altri, che il meccanismo promette sì fondi ai poveri, ma rischia solo di lavare la coscienza a chi non vuole smettere di emettere gas-serra.

Allarme: i ghiacciai si ritirano sempre più velocemente
Quanto a ghiacciai, ieri l'Unep (il programma ambientale dell'Onu) ha presentato un rapporto che lancia l'ennesimo grido di allarme: ighiacci della Patagonia e dell'Alaska si stanno ritirando a velocità sensibilmente superiori che nelle altre vette del mondo. «Senza dubbio, la forza che guida il rapido scioglimento dei ghiacciai himalayani – sentenzia Madhav Karki, vicedirettore dell'International center for integrated mountain development – o i catastrofici Glfo è il riscaldamento dovuto al cambiamento climatico. La comunità internazionale è chiamata a fare in fretta». I Glfo (una sigla per addetti ai lavori che sta per Glacial lake outburst floods) sono le alluvioni che avvengono quando i laghi montani formati dallo scioglimento dei ghiacci, tracimano. «Negli ultimi anni – spiega Karki – ce ne sono stati numerosi, in Patagonia, in Cina e in Bhutan». Ovviamente, al prezzo delle vite umane che abitavano a valle.

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Le isole-stato temono l'innalzamento delle acque
A nome degli oceani invece, al vertice climatico messicano parlano gli abitanti delle isole più piatte e quindi a rischio di scomparire per effetto dell'innalzamento delle acque: dalle Maldive a Tonga, dalle Seychelles a Tuvalu. Ronny Jumeau delle Seychelles è un rappresentante dell'Aosis, l'alleanza delle isole-stato che – sulla carta – sono i primi paesi ad essere colpiti dal climate change: «Non ci zittiremo mai – dice, con parecchia enfasi – e anche quando saremo sott'acqua, con le bolle d'aria che vengono su, ci sentirete gridare».
Sui rischi che corrono le isole-stato c'è un deciso consenso scientifico: i mari si stanno oggettivamente alzando, sia perché l'Artico e la Groenlandia perdono massa ghiacciata sia perché, per effetto del riscaldamento, l'acqua si dilata. «Ma le promesse non bastano più – insiste Jumeau – adesso è il momento dei fatti».
Foreste, ghiacciai e oceani hanno detto la loro. È attesa la risposta dei paesi del mondo, riuniti fino a venerdì sulle bianche e assolate spiagge di Cancun.

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