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Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2010 alle ore 09:40.
CANCUN. La ferita di Copenhagen è ancora aperta. Il vertice danese di un anno fa, invece di produrre alla luce del sole un trattato internazionale sulle emissioni di gas-serra, aveva partorito all'ultimo minuto una vaga intesa – il Copenhagen Accord – promossa da Barack Obama in persona, dentro a una stanza con un pugno di capi di Stato e di governo. «Quest'anno non ci saranno testi segreti o negoziati dietro le quinte», ha promesso domenica Patricia Espinosa, ministro degli esteri del Messico, il paese ospite dell'ennesimo round di negoziati, che da oggi entrano nella settimana cruciale.
L'allusione è chiara. E forse è politicamente incoraggiata da Wikileaks che, nel mare magnum dei messaggi diplomatici esposti al mondo, ha rivelato delle manovre americane di un anno fa, per imbarcare nell'Accord anche i paesi più poveri in cambio di promesse economiche. Eppure, dal bianco della neve di Copenhagen al bianco delle spiagge di Cancun, l'atmosfera è cambiata poco, o nulla. «Non andiamo d'accordo nelle riunioni plenarie – racconta un diplomatico sudamericano che chiede di restare anonimo – ma neppure nelle riunioni informali».
In realtà, nella prima settimana di negoziati qualche progresso è stato fatto. Ad esempio sui colloqui Redd, dove si studia la ragionevole possibilità di sostenere economicamente i paesi con grandi foreste tropicali, come Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo, affinché arrestino la deforestazione: gli alberi mangiano CO2 e abbatterli è sempre più una cattiva idea. E qualche spiraglio arriva anche dalla bozza di accordo che sta circolando, dove si riconfermano le promesse economiche dell'Accord (100 miliardi di dollari l'anno, da qui al 2020) ma si punta a obbiettivi più ambiziosi (contenere l'aumento della temperatura media planetaria entro 1,5 gradi Celsius, invece che 2).
La vera partita, però, inizia oggi: a Cancun arrivano moltissimi ministri dell'ambiente e – dopo la figuraccia collettiva di un anno fa – pochissimi capi di stato. Sin qui, il maggiore bersaglio degli strali internazionali è stato il Giappone. Pochi giorni fa, il paese che nel 1997 aveva ospitato la firma dell'unico trattato globale sul riscaldamento climatico, ha chiesto esplicitamente di abbandonare il Protocollo di Kyoto alla fine del 2012, quando decadrà naturalmente. Per alcuni paesi industrializzati – e climaticamente scettici – come Russia e Canada, è stata la ciliegina sulla torta: Kyoto non prescrive impegni obbligatori né per la Cina (diventata nel frattempo il primo paese per emissioni-serra) né per gli Stati Uniti (che avevano firmato il Protocollo senza mai ratificarlo).