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Euro e deficit, l'impensabile diventerà inevitabile?

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 dicembre 2010 alle ore 15:55.
L'ultima modifica è del 12 dicembre 2010 alle ore 16:12.

Scriveva l'Economist della scorsa settimana che ci sono vicende nelle quali l'impensabile comincia ad apparire inevitabile. Fino a qualche tempo fa, erano solo gli euroscettici più incalliti a sostenere che l'uno o l'altro dei paesi deboli dell'eurozona avrebbe finito per non pagare i suoi debiti e che l'euro non sarebbe sopravvissuto alle conseguenti turbolenze. Ora, entrambe le eventualità sono entrate nella discussione pubblica, non c'è neanche più il timore di concorrere all'auto-realizzazione delle profezie che si fanno e da giorni leggiamo pagine e pagine sui paesi che potrebbero alzare bandiera bianca, sui modi, intricati ma secondo alcuni non impossibili, per farli uscire dall'euro, sulla desiderabile forza e bellezza di un euro finalmente nibelungo o poco più.


Seguo come tutti queste discussioni e devo dire che non mi sembrano affatto campate in aria, così come non mi sembra facile imputare alla solita irrazionalità dei mercati le impennate degli spread che tanto mettono in difficoltà i paesi più fragili. Quello che in realtà sta accadendo è che sempre più si diffonde la convinzione che gli strumenti sin qui predisposti per prevenire possibili "default" sono inadeguati e che, di conseguenza, l'euro potrebbe trovarsi davanti a scenari sino ad ora mai messi nel conto.

Né una convinzione del genere è espressa soltanto dagli operatori di mercato, innervositi dalla enorme quantità dei bond pubblici che sono chiamati a coprire, avendo alle spalle una garanzia degli stati membri che gli stati stessi devono di volta in volta ribadire. Sono anche altri a esprimere sempre più la stessa convinzione con argomenti, per di più, che vanno oltre tecnicalità finanziarie più o meno farraginose e quindi più o meno migliorabili. Impressiona leggere analisti conservatori come sono quelli del Wall Street Journal e prestigiosi esponenti della cultura e della politica laburista come Stuart Holland, che battono all'unisono su un medesimo punto.

Se continuiamo così - ci viene detto numeri alla mano - nei paesi più fragili il debito continuerà a presentare un conto che ogni anno crescerà di più del sempre più esangue reddito nazionale. Il "programma irlandese", perciò, serve soltanto a far rotolare il problema un po' più in là, ma già si scrive negli uffici studi delle banche che l'Irlanda è di fatto insolvente, che lo è anche la Grecia e che sta per diventarlo lo stesso Portogallo.

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Tags Correlati: Angela Merkel | Ecofin | Economist | Europa | George Papandreou | Giulio Tremonti | Jean-Claude Juncker | Nicolas Sarkozy | Paul Krugman | Politica | Stati Membri | Stuart Holland

 

Siamo dunque davanti a bancarotte statali inevitabili, così come inevitabile sarà il naufragio dell'euro nel mare di tali bancarotte? Chi ha sempre sostenuto che una moneta unica ha senso solo in un contesto politico integrato dice a questo punto che per evitare l'inevitabile occorre dar vita finalmente alla federazione politica europea. È difficile dar torto a questa posizione e di certo non sarò io a farlo, ma è giocoforza notare che una tale soluzione, nel contesto europeo attuale, appare a dir poco lontana. Altri hanno fatto proposte che non arrivano a quel punto, ma impongono di fare a breve qualche passo d'integrazione in più.

Sono le proposte di cui più volte abbiamo parlato anche qui e che vanno dall'assorbimento di una parte dei debiti nazionali in eurobond (come tali più forti dei bond nazionali e fonte per ciò stesso d'interessi più contenuti), all'avvio di politiche comuni per la crescita, che aiutino i paesi più inguaiati ad aumentare le risorse per pagare quanto devono.

Una luce si è accesa per i fautori di queste proposte, quando giorni fa a lanciare gli eurobond sul Financial Times sono stati insieme il presidente dell'Ecofin Jean-Claude Juncker e il nostro Giulio Tremonti. Ma la luce l'hanno spenta venerdì a Francoforte Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, che hanno detto seccamente di no, convinti che per uscire dalla crisi basta quello che stiamo facendo. L'impensabile diventerà allora inevitabile? O potrebbero aver ragione Merkel e Sarkozy?

Gli argomenti più articolati a sostegno della tesi che l'impensabile non è affatto inevitabile li ha svolti Mario Draghi nell'intervista che proprio venerdì è apparsa sempre sul Financial Times e sul Sole 24 Ore. In questa, come in altre occasioni, il nostro governatore ha ricordato l'esperienza che vivemmo insieme nel '92, quando fronteggiamo una crisi senza precedenti, con mercati riottosi e spread da capogiro. Eppure ne uscimmo - ricorda Draghi - senza ricorso al Fondo monetario, senza aiuti europei e solo grazie al rigore finanziario, ad appropriate riforme strutturali e a un'intensa politica di privatizzazioni, che arrivò a un totale prossimo al 10% del Pil italiano. Gli eurobond potrebbero anche servire - è la sua conclusione - ma non è facile farli, mentre chi si dà regole serie dimostra di seguirle e di riformare ciò che va riformato, riacquista la fiducia dei mercati, torna ad attrarre investimenti e ce la fa.

Come potrei non simpatizzare con una conclusione del genere, appoggiata com'è a una esperienza da me condivisa? Proprio per questo, però, una cosa la devo aggiungere e cioè che a spiegare il nostro successo di allora concorse una ragione ulteriore: la svalutazione della lira, accompagnata da una rigida politica dei redditi e in primis del costo del lavoro, che consentì alle esportazioni italiane di avvalersi dei maggiori margini offerti dalla stessa svalutazione, senza incrementi dei costi interni. L'economia ne fu tonificata e ci facilitò ovviamente nel fronteggiare poi il servizio del debito.

Io confido molto, perciò, nelle prescrizioni di Mario Draghi e sono certo che la Grecia che uscirà dalle cure di George Papandreou sarà comunque migliore e più affidabile di quella che aveva una spesa pubblica senza freni e che per questo si era cacciata nei guai. Allo stesso modo potrà essere migliore e più affidabile l'Irlanda, che certo è stata sbilanciata dall'immenso debito assorbito per salvare le sue banche, ma che anche indipendentemente da ciò aveva costruito la sua fortuna più sulle bolle che su una solida economia reale.

Tuttavia, non dovremmo disporre per loro di qualcosa che equivalga alla svalutazione di cui si poté avvalere allora l'Italia, a evitare insieme il loro soffocamento e la disgregazione della zona euro? Parliamoci chiaro. Oggi c'è chi punta a un tale sgretolamento, non necessariamente per sfasciare tutto, ma per arrivare all'euro forte dei pochi, attorniato, se gli altri ci riescono, dall'euro debole dei più. Sarebbe un male per l'Europa, come ha scritto ieri Paul Krugman su queste colonne. E allora alla Merkel non diciamo sempre di sì, ma convinciamola che devono essere una priorità europea, se non gli eurobond per il debito, almeno le politiche e le risorse finanziarie per una crescita, che nello stesso interesse tedesco coinvolga anche chi deve destinare oggi a interessi il poco Pil che produce. O dobbiamo pensare che l'inevitabile è ciò che in effetti si vuole?

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