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Un'Italia che si gioca il futuro a poker. Vi spiego perché la partita non finirà dopo il B-day

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2010 alle ore 08:27.
L'ultima modifica è del 14 dicembre 2010 alle ore 07:43.

Il 14 dicembre è arrivato. Oggi, salvo colpi di scena, sapremo se il governo Berlusconi, che all'esordio nel 2008 pareva inaffondabile, ha resistito alla spallata del voto di sfiducia in Parlamento. E dopo tanti arzigogolii e colpi bassi, la contabilità politica potrà mettere in fila, oltre i risultati numerici, vincitori e vinti della partita.

Semplificando al massimo, visto il braccio di ferro che si protrae da mesi, non si sbaglierebbe, in prima battuta, a indicare due nomi, quello del premier Silvio Berlusconi e quello del presidente della Camera Gianfranco Fini. Basta un voto a favore o a sfavore in più o in meno: se Berlusconi regge, Fini è sconfitto; se Berlusconi è sfiduciato, Fini ha vinto.
Ci faremmo così l'idea, del tutto legittima e comprensibile, che una resa dei conti bipolare è infine giunta a troncare il brutto e mediocre film che avevamo sotto gli occhi da troppo tempo. C'è un vincitore, c'è un vinto: il quadro è sgombro, nel cielo non volano più i falchi e le colombe, possiamo (finalmente) pensare ad altro.

Ecco, questo è un errore da non fare. Per due ragioni. La prima è che fino a un minuto prima del voto nessuno può escludere una mediazione in extremis che eviti lo scontro all'arma bianca nelle aule parlamentari in vista di un nuovo percorso condiviso all'interno della maggioranza andata in pezzi.

La storia della vita politica italiana, bipolarismo o no, maggioranze forti o no, finisce sempre per assomigliare alla tela di Penelope, che di notte disfaceva ciò che tesseva durante il giorno. Nulla è acquisito, neanche per il tempo di una legislatura o anche per una frazione di essa. Lo sanno benissimo Berlusconi (1994), Prodi (1998), D'Alema (1999), Amato (2000), Berlusconi 2 e Berlusconi 3 tra il 2001 e il 2005, Prodi 2 (2006-2008) e oggi Berlusconi 4.

E ogni ipotesi del dopo B-day va costruita nei fatti in un sistema politico-decisionale incompiuto, e in perenne attesa di riforma, dove ci si accapiglia tra fautori del parlamentarismo e depositari della sovranità popolare. Ma c'è una seconda e più importante ragione per la quale sarebbe sbagliato pensare che la partita finisce oggi. Perché indipendentemente dalla conta dei voti, dei vincenti e dei perdenti, o dal fatto che lo stesso governo la spunti per un soffio, non cambia l'ordine dei problemi che l'Italia ha di fronte.

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Il governo sta gestendo con accortezza il problema del debito pubblico (al 120,2% del Pil quello atteso per il 2011) e ha appena incassato dalla Commissione europea la valutazione, positiva, che non è necessaria un'altra manovra dopo quella prevista dalla legge di stabilità appena approvata. L'Italia, in un'eurozona dove la crisi dei debiti sovrani ha finito per mettere sotto pressione la moneta unica, non è dunque oggetto di particolari manovre speculative sui mercati.

Ma è chiaro che nella battaglia degli spread la stabilità è un dato fondamentale e che le incertezze non premiano. Nessuna meraviglia, dunque, se il nostro paese resta sotto osservazione (dopodomani, il 16, si apre il vertice dei capi di stato e di governo europei su governance e riforma del Patto di stabilità) e sono di ieri le previsioni dell'Ocse che indicano, per tutti i paesi dell'euro, una ripresa in frenata e la necessità di «un'agenda di riforme orientata al futuro».

Riforme è una parola che ricorre spesso, anche troppo, nel dibattito di casa nostra. Molte di quelle promesse dal centro-destra dopo la vittoria del 2008 sono rimaste al palo, per un motivo o per l'altro e comunque a fronte di un coraggio via via decrescente. Quella del fisco prospetta tempi lunghi, quella federalista in corso d'opera non può dare risultati immediati. Quella dell'università è al momento in frigorifero al Senato, in attesa dell'approvazione finale che rischia di saltare nel caso il governo venga sfiduciato.

Semmai ce ne fosse stato bisogno per aprirci meglio gli occhi è arrivato infine lo shock da globalizzazione firmato da Sergio Marchionne. Che spalanca al piccolo mondo dei machiavellismi politici e sindacali un orizzonte in cui nulla sarà come prima e in cui i divari di produttività sono destinati a causare le fortune, o le sfortune, delle nazioni.

La stabilità politica è un prerequisito della crescita. Ma una stabilità fatta di sopravvivenza senza governare, per parafrasare un fortunato saggio della politologia di fine anni 70, non serve a nessuno. Comunque vada a finire il B-day, qualunque sarà lo sbocco finale di questa brutta stagione, un governo che governi con idee chiare è l'unica cosa saggia che ci si può augurare.

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