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Nel cuore della swinging Teheran sesso, droga e rock and roll sono un atto di ribellione al regime

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 dicembre 2010 alle ore 16:24.

Nel centro commerciale Golestan, all'ombra di due giganteschi ritratti degli ayatollah Khomeini e Khamanei che sembrano messi lì a fare la guardia, ragazzi coi capelli impomatati adocchiano ragazze coi foulard a dondolo e le unghie smaltate sui piedi nudi nei sandali. Vestiti scollati grondanti strass e lustrini ammiccano dalle vetrine dei negozi in cui è inutile cercare una gonna senza spacco né fronzoli.

Facile trovare somiglianze tra donne agghindate che fumano ai tavolini di un coffee shop. Possono sembrare parenti, ma più probabilmente sono solo clienti dello stesso chirurgo estetico, visto che il restauro del viso (e non solo) è diventata pratica molto diffusa a Teheran e non più esclusivo appannaggio delle donne ricche dei quartieri nord.

Il Golestan, a dispetto della sua sgradevolezza architettonica, è il punto di ritrovo delle "persone alla moda" divorate dall'angoscia di restare indietro, è l'avamposto pubblico della "swinging Teheran", che si esprime appieno in ambito privato, in ricche residenze con piscine sui tetti, rigorosamente coperte perché le piscine sono ufficialmente vietate.

È più spaesato che curioso lo sguardo di Sara Yalda mentre si aggira nelle strade ingorgate e soffocate dal biossido di carbonio di una Teheran più inquinata di Città del Messico e nel notare che nei ritrovi mondani le griffe celebri in tutto il mondo sono indossate in modo più provocante e sfacciato che altrove, con un surplus di trasparenze, spacchi più audaci e, sotto, Wonderbra doppiamente imbottiti d'ordinanza. Occhiate di commiserazione scorrono sulla sua sobria rupush che la legge imporrebbe d'indossare fuori dalle proprie mura domestiche. «In Iran – la conforta l'amica che l'ha invitata alla festa all'Ester Williams - essere civettuoli equivale a resistere, a ribellarsi». Pazienza se implica dei rischi, multe, processi e in non pochi casi anche frustrate.

«In Iran – conclude l'accompagnatrice – la spensieratezza non è mai troppo distante dalla disperazione». E, dopo averle riepilogato che a Teheran non si è mai bevuto tanto come da quando è stato vietato l'alcool, il consumo di droghe è in sintonia e quello sessuale idem, tanto che è più facile fare sesso che innamorarsi, le confessa: «Mi sono chiesta spesso quale eredità possa trasmettere una generazione alla quale sembra tutto insulso, tranne ciò che è proibito».

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Teheran underground

Tags Correlati: CIA | Ester Williams | Iran | James Risen | Medio Oriente | Politica | Reza Palhavi | Robert Baer | Ryszard Kapuscinski | Sara Yalda |

 

Sara Yalda mancava da Teheran da 27 anni. La sua famiglia era fuggita sulla scia dello scià Reza Palhavi, lasciando una città che in quei giorni di trionfo della rivoluzione khomeinista, il reporter appassionato Ryszard Kapuscinski, reso ancor più lucido dall'improvviso black out allo smercio d'ogni genere alcolico, seduto al bar dell'albergo sorseggiando tè, davanti allo schermo tv invaso dalla folta barba di Khomeini che parlava e parlava con voce piatta e monotona, ha raccontato che «da quando, a metà febbraio, in città è scoppiata la rivoluzione e la folla ha saccheggiato gli arsenali, Teheran brulica di individui armati ed esaltati: di notte, con il favore delle tenebre, per strada e nelle case si consuma il dramma delle uccisioni a tradimento. Le forze clandestine, di giorno nascoste, alzano la testa e sguinzagliano per tutta la città commandos mascherati».

Scene d'epoca, d'accordo. Ma che vale la pena di ricordare, perché è da quel momento che il "nuovo Iran" si è via via defilato dalle cronache occidentali, pur rimanendo ben presente nello scenario mediorientale sul quale oggi è tornato a giganteggiare, seminando sgomento in Occidente. Scene viste anche dall'americano Robert Baer, a quei tempi agente della Cia operativo in Medio Oriente e oggi scrittore, che di ritorno a Teheran in tempi recenti prova di primo acchito la stessa sensazione provata la prima volta, quella cioè che «gli iraniani non sanno guidare». Poi, guardandosi attorno con più attenzione, pur declinando i numerosi inviti alle feste della "swinging Teheran", si convince in fretta che gli Stati Uniti non hanno capito niente dell'Iran. E proprio nel momento in cui ne avrebbero più bisogno non sono in grado di comprenderne le tante sfumature, cosa peraltro difficile anche per gli iraniani stessi.

Dunque si mette all'opera per mettere assieme le tessere di un mosaico assai complicato, partendo da tre presupposti. Il primo che l'Iran è «una nazione profondamente religiosa che sta anche disperatamente cercando di modernizzarsi». Il secondo è che «l'Iran, oggi, ha una fede incrollabile nel proprio diritto a governare un impero. Per raggiungere il suo scopo si avvarrà di strumenti come la guerra per procura e il controllo delle riserve di petrolio». Il terzo è che «tutto quanto è stato detto all'americano medio a proposito dell'Iran è falso. L'Iran non sta combattendo una crociata. Non vuole convertirci all'Islam. L'Iran è profondamente convinto di aver combattuto, negli ultimi trent'anni, una guerra aperta contro l'occupazione». E in questo quadro lo spauracchio Ahmadinejad «è un fantoccio che non ha la capacità di portare l'Iran in guerra più di quanto il senatore Joseph McCarty fosse in grado di portare l'America in guerra contro il comunismo. I veri leader dell'Iran sono razionali, pragmatici e calcolatori». In sintesi: «Noi viviamo nel passato. L'Iran vive nel futuro».

E da qui parte per un viaggio in quel contesto geopolitico lungo trent'anni che fa più luce "logica" sull'Iran di quanto si possa sperare di trovare frugando in montagne di dotte analisi sulla politica in Medio Oriente, finendo inevitabilmente per delineare scenari dell'imminente futuro e suggerire i modi più congrui per affrontarli per non subire più danni di quanti se ne siano già subiti, Iraq in particolare, praticamente "regalato" all'Iran cui non erano bastati otto anni di guerra per conquistarlo.

Non c'è da farsi fuorviare dal tono a tratti quasi scanzonato con cui Baer tratta una materia così complessa, gratificando il lettore non specialista. «Le verità che Baer racconta – dichiara solenne il premio Pulitzer James Risen – non sono fatte né per confortare né per soddisfare la partigianeria di qualcuno. Per questo bisogna leggerle». Auspicando che accolgano l'invito a leggerlo e rimuginarci sopra anche gli strateghi di una globalizzazione interamente pilotata dagli americani che, per usare le parole di un amico iraniano di Baer «vedono il turbante ma non il cervello».

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