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Battaglia a Tunisi, Ben Ali cede: non mi ricandiderò

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Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2011 alle ore 06:38.

La battaglia di Tunisi si combatte anche con le donne che lanciano vasi e pietre dai balconi di Avenue de la Liberté e Rue de Rome mentre la Guardia nazionale spara sulla folla: due i morti, ferito anche un giornalista francese. L'ondata della protesta si rovescia nel cuore della capitale, infrange il quartiere degli affari e dello shopping, sbriciolando sulla costa di Hammamet la vetrina turistica di un regime che sta vacillando: è un potere quasi svuotato e inefficace quello che adesso rincorre i tunisini. E puntualmente Ben Alì cede alla piazza.

«Vi ho compreso - esordisce nel suo discorso alla nazione - e voglio soddisfare le vostre rivendicazioni». Il presidente compare a tarda sera in tv per ordinare di non sparare più sui manifestanti (ma la polizia ha ucciso due dimostranti a Tunisi proprio durante il discorso), annunciando il calo del prezzo del pane, del latte, dello zucchero, promettendo la libertà di stampa e di togliere i blocchi a internet (i siti censurati sono tornati accessibili subito dopo), uno dei protagonisti con i blogger della rivolta. Ma soprattutto proclama che non si ripresenterà nel 2014, al prossimo appuntamento elettorale, quando avrà ormai 79 anni.
Il tono è accorato, parla in tunisino, a cuore aperto, come un buon padre di famiglia sembra chiedere scusa a un intero popolo: questo appello, il secondo in appena quattro giorni, è l'ultima chance che si gioca per stare in sella e guidare nei prossimi anni la transizione. Per essere più convincente invia qualche centinaio di supporter a scandire il suo nome in Avenue Bourghiba sotto coprifuoco: cortei rumorosi che devono essere ripresi dalla tv e dare coraggio a un sistema che dura da oltre un ventennio.

I tunisini non chiedono più soltanto pane e lavoro, marciano nelle strade, attaccano banche e supermercati, sfregiano le ville della famiglia Ben Alì, tra anarchia e protesta politica, in un'intifada disordinata e senza capi, con molte vittime e un bilancio quasi impossibile da verificare: otto morti a Tunisi tra mercoledì e ieri, due ad Hammamet, due a Biserta, sei a Gabés, dove per la prima volta sarebbe stato l'esercito a sparare sulla folla. Dall'inizio della rivolta le stime dei morti sono fra 60 e 80.

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Tags Correlati: Ben Alì | Biserta | Hammamet | Naoufel Nefati | Pino De Rossi | Saddam Hussein | Tunisi | Ugt

 

La battaglia Biserta di ieri è stato un saccheggio senza freni inibitori dove giovani e anziani si strappavano di mano casse di birra, televisori, arredi di supermercati. L'assalto ai centri commerciali è un leit motiv in tutto il paese: la pancia vuota dei tunisini è piena di rabbia da sfogare. «Qui la polizia non si vede più da due giorni: hanno lasciato campo libero alle bande, come se volessero trascinarci nell'anarchia o peggio ancora nella guerra civile», accusa Naoufel Nefati, 42 anni, imprenditore che imbottiglia olio per un partner italiano di Martina Franca, il preoccupato signor Pino De Rossi.

Al sindacato Ugt, unica organizzazione con una certa presa sulla società civile, hanno insediato un comitato di salute pubblica contro i saccheggiatori, con un piglio rivoluzionario forse iniettato dalle cellule comuniste sopravvissute a due decenni di repressione. I militanti sfilano in piazza dell'Orologio sventolando la mezzaluna tunisina in campo rosso: «Soltanto così si difende la libertà e la dignità del popolo contro il tiranno Ben Alì». Gridano tutti, rossi in faccia, con un'ira sorda e profonda, soffocata per anni. A Biserta, un tempo sonnolento porto di provincia, i soldati guardano senza intervenire, protetti dalle concertine di filo spinato che difendono caserme e banche.
Il profilo corvino di Ben Alì, che ha mandato all'estero moglie e parenti, e il suo ritratto sui palazzi del potere - l'unico sempre uguale da 23 anni - devono apparire una maschera un po' logora anche in tv a un paese che non gli obbedisce più, che non gli crede e, soprattutto, che ha dimostrato di non temerlo. Ben Alì è un ex poliziotto non un politico, il suo nell'87 fu un colpo di stato di provincia, senza fuochi d'artificio, condotto a passo felpato per esautorare un anziano leader moribondo, che passò quasi inosservato anche per la collaborazione dei servizi segreti italiani. Non ha le dimensioni del raìs arabo nazionalista, la facondia di un Nasser e neppure il fascino tragico e feroce di un Saddam Hussein. E tanto meno l'abilità manovriera del siriano Assad. In questi momenti ingenerosi - ma non si può chiedere ai popoli troppa riconoscenza - si dimentica che ha evitato al Paese il contagio islamico, salvando il laicismo lasciato da Bourghiba e associando il paese all'Unione europea.

Ma il patto sicurezza e protezione contro libertà e democrazia che ha legittimato il regime ormai si è incrinato. E anche lui lo sa, per questo ieri ha tentato in tv l'ultima difesa, dopo aver allontanato la moglie Laila e un corteo di parenti famelici con un seguito di consiglieri avidi e inaffidabili come quelli che si trovavano alla corte dello Shah in Iran e degli zar di Russia. Oggi nella capitale c'è lo sciopero generale che coincide con la preghiera islamica del venerdì: è la prima prova per capire se Ben Alì è riuscito a contenere l'intifada della Tunisia.

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