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In Tunisia vince la rivolta. Ben Ali fugge in Arabia Saudita, poteri al premier Ghannouchi

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 gennaio 2011 alle ore 08:12.

TUNISI - È scappato via al tramonto, nell'oscurità, come un ladro con il bottino, mentre l'esercito prendeva il controllo della capitale sparando in continuazione raffiche di mitra intimidatorie. Proclamato lo stato d'emergenza, confermato il coprifuoco già in vigore, pattugliato l'aeroporto e chiuso lo spazio aereo: così è cominciato, con un secco comunicato in tv, il golpe in Tunisia, il secondo nella storia della repubblica dopo quello che il 7 novembre 1987 aveva proiettato ai vertici Ben Alì esautorando l'anziano presidente Bourghiba.

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Non si sa neppure come giudicare l'annuncio di Ben Alì diramato alle quattro del pomeriggio dal primo ministro Mohammed Gannouchi - nuovo presidente ad interim - per sciogliere il governo e indire elezioni legislative entro sei mesi: forse un passo previsto in un piano preordinato, oppure l'ultimo goffo tentativo del presidente di salvare un potere che ormai non gli riconosceva più nessuno. Così come ai più accorti era già sembrata una fiche della disperazione il discorso televisivo dell'altra sera con cui aveva annunciato la fine della repressione e l'inizio di un'era di libertà di parola e di espressione, a partire da internet e Facebook.

Lui aveva alzato il Muro di Tunisi e lui voleva smantellarlo restando in sella fino al 2014: ma i tunisini, dopo un'iniziale euforia notturna organizzata dal regime, hanno dimostrato, invadendo le strade della capitale, di non credergli.
Troppo sangue e troppe promesse non mantenute. «Tunis horra horra, Ben Alì ala barra»: Tunisia libera, Ben Alì fuori, gridavano ieri a migliaia nel vernacolo arabo. Ma lui, asserragliato nel palazzo di Cartagine, non voleva ancora sentire. In piazza arrivava un corteo dopo l'altro: prima i sindacalisti, poi gli avvocati, i professori, i giovani delle periferie, persino bancari e assicuratori, una società civile esasperata e confusa, compatta però nel non voler più vedere la galleria dei suoi ritratti che tappezzano il paese. Detestato tanto lui quanto la moglie Laila Trabelsi, ritenuta il capo del clan dei razziatori.

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«Dalla mattina alla sera - urlava l'esasperata Jasmina - consumiamo Trabelsi. La mattina mangiamo il burro Trabelsi, quando andiamo al lavoro prendiamo autobus Trabelsi, anche il nostro letto è un Trabelsi e quando accendiamo la radio, la tv o un telefono anche quelli sono loro». La Tunisia è stata in mano per oltre vent'anni a questa tribù vorace che possiede tutto, con uno stuolo di parenti odiati come Imed, il fratello di Laila, la "regina di Cartagine", che ieri sarebbe stato accoltellato mentre a Gammarth, sobborgo lussuoso della capitale, le ville dei Trabelsi venivano sistematicamente saccheggiate da bande selvagge delle banlieu. Una figlia e una nipote di Ben Alì sono intanto già atterrate a Parigi, il genero Sakhr Matri è a Dubai, forse insieme a Laila.

Chi governa adesso la Tunisia esacerbata dalla repressione e lacerata come non mai? L'anatomia di questo colpo di stato non è di facile interpretazione: sembra improvvisato, in stile maghrebino, ma allo stesso tempo quasi ineluttabile dopo una sollevazione popolare che stava scivolando verso l'anarchia. La maggior parte delle cancellerie occidentali è stata colta di sorpresa non tanto dall'intervento dei militari quanto dall'accelerazione rapida, a precipizio, della crisi. Nelle strade comandano i militari, mentre la presidenza ad interim è stata affidata proprio al premier Mohammed Gannouchi che guida un comitato di sei "saggi" in attesa di convocare elezioni anticipate (chieste anche dal presidente americano Barack Obama). Gannouchi, economista, 69 anni, è un uomo di Ben Alì descritto come un abile negoziatore: in questa crisi ha avuto un ruolo di primo piano, licenziando il ministro degli Interni e tenendo i contatti con l'opposizione.

Prima di andarsene Ben Alì non ha rinunciato al riflesso anchilosato del poliziotto, lanciando i reparti anti-sommossa contro i dimostranti che assediavano il ministero degli Interni, simbolo di una repressione che in queste settimane ha fatto un centinaio di morti. Quando un corteo ha scaricato davanti al ministero il feretro di Helmi, 24 anni, falciato da uno sniper della Guardia Nazionale, la polizia ha caricato con ferocia. Erano da poco passate le 14 e 30 e tre ore dopo Ben Alì si era già involato. In serata a Cagliari il giallo di un aereo tunisino atterrato per uno scalo. Secondo il sito di «El Pais» sul velivolo c'era Ben Alì, ma fonti governative italiane, dopo che la polizia era salita sul velivolo, hanno smentito: a bordo ci sarebbe state soltanto una hostess, un pilota e un terzo passeggero. Ben Alì, respinto dalla Francia, secondo la tv Al Arabiya era invece atterrato nella notte a Gedda, in Arabia Saudita.

E ora un destino incerto attende la patria del gelsomino, fiore delicato, simbolo di un paese sostanzialmente mite che non merita un'altra tragedia dopo quella di avere sopportato un regime predatorio e illiberale.

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