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Questo articolo è stato pubblicato il 16 gennaio 2011 alle ore 08:10.
Basta una notte per passare dal richiamo alla responsabilità rivolto ai lavoratori all'appello al Lingotto per mettere rapidamente in pratica gli investimenti promessi. L'evoluzione del dibattito politico su Fiat e Mirafiori appare quasi scontata, già alle prime dichiarazioni del ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, l'esponente del governo che in questi mesi più degli altri ha seguito gli sviluppi del confronto, centrato sulle relazioni sindacali più che su una vera politica industriale da delineare per il paese. A questo punto – commenta Sacconi – «si apre una fase che deve concretamente condurre all'investimento promesso dall'azienda.
Noi saremo impegnati per questo obiettivo». Insomma, incassato il sì, considerato decisivo per aprire «un'evoluzione nelle relazioni industriali, soprattutto nelle grandi fabbriche», il governo si aspetta ora che Fabbrica Italia, con i 20 miliardi di investimenti annunciati, proceda a grandi falcate. Finora, va detto, l'esecutivo sul tema è apparso estremamente cauto, a tratti distratto, condizionato sicuramente prima dal lungo interim al ministero dello Sviluppo economico e poi dalla fase di insediamento del neoministro Romani che ha coinciso con le incertezze sulla tenuta della legislatura. Ieri Paolo Romani si è allineato alla perfezione a Sacconi indicando la necessità di «attuare subito l'accordo, partendo con gli investimenti e con le nuove strategie di produzione». Dal canto suo, assicura che l'esecutivo «continuerà a seguire i vari passaggi del rilancio di Fiat», anche se il terreno di gioco in cui il ministero finora è sceso in campo si limita all'insediamento di nuove aziende nel sito di Termini Imerese che il Lingotto lascerà a fine 2011. Per il resto, anche se non ci sarebbe ancora nulla in cantiere, è possibile che più avanti, assorbito l'esito del voto di Mirafiori, il governo programmi un nuovo incontro con i vertici Fiat per una verifica complessiva del piano.
La velocità di esecuzione dei nuovi investimenti ieri è stata anche al centro delle reazioni dell'opposizione. Il leader del Pd Pierluigi Bersani invita a rispettare tanto il risultato del referendum quanto «quel tanto di disagio che rappresenta», poi incalza il governo sull'assenza di una politica industriale, in particolare per l'auto, «perché Mirafiori non esaurisce il problema» del settore, in particolare «per lo sviluppo e la ricerca». Più duri i toni di Massimo D'Alema che vede nel risultato dei no «una reazione di dignità rispetto alle pressioni esercitate, alcune anche indebite, come quelle arrivate dal governo e dal presidente del Consiglio». Pier Ferdinando Casini, leader Udc, parla di grande saggezza di chi ha votato sì ma richiama all'attenzione Marchionne («non tiriamo la corda, sono sacrifici pesanti»), mentre Nichi Vendola di Sinistra e Libertà e Antonio Di Pietro dell'Idv attaccano ancora a testa bassa sottolineando il consistente blocco di no usciti dalle urne. Anche a loro va la replica del sottosegretario a Palazzo Chigi, Paolo Bonaiuti, che parla di «buona parte della sinistra e del sindacato legata a vecchi schemi», incapace di cogliere il cambiamento. Dal territorio, intanto, arrivano messaggi di ottimismo. «Ora si riapra il dialogo, sia nello stabilimento sia a livello interconfederale e di Confindustria, per rivedere gli assetti della contrattazione», dice il sindaco di Torino Sergio Chiamparino (si veda intervista a fianco ndr.). Mentre il presidente del Piemonte, Roberto Cota, attribuisce a Marchionne il merito «di aver portato una ventata di novità. Lo incontrerò di nuovo. Adesso bisogna vigilare perché vengano fatti tutti gli investimenti e mantenuti, anzi aumentati, i posti di lavoro». Nel giorno del verdetto di Mirafiori Gianfranco Fini, durante una manifestazione di Fli dedicata al lavoro, allarga invece l'orizzonte interrogandosi «sui tanti Marchionne che potrebbero venire ad investire in Italia e nel Sud ma non lo fanno», la questione è «come attrarre i capitali» nel nostro paese. Quanto alle tensioni sulle nuove relazioni industriali, l'appello è superare «la contrapposizione tra capitale e lavoro», diventando pragmatici, perché «non ci sarà mai – sentenzia il presidente della Camera – una politica per la tutela dei lavoratori e non ci sarà più la possibilità di rivendicare i diritti dei lavoratori se le fabbriche chiudono».