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La collera di piazza Tahrir su Mubarak che resiste. L'esercito: saremo i garanti di elezioni libere

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 febbraio 2011 alle ore 06:35.

Piazza Tahrir ha accolto con un ruggito feroce, di rabbia e delusione, il discorso di Mubarak: «Resto fino a settembre, ho una chiara strategia per risolvere la crisi». «E non accetto diktat stranieri», ha aggiunto per sottolineare che nessuno, neppure gli Stati Uniti, può imporgli di passare la mano al suo vice, Omar Suleiman, al quale trasferisce i poteri e diventa di fatto presidente dell'Egitto. Mubarak a parole concede tutto, ma non le dimissioni. E sono sembrate persino irridenti, alla folla di piazza della Libertà, le parole con cui ha detto, rivolto ai giovani, «che il sangue dei martiri non è stato versato invano».

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Il ruggito della piazza forse è arrivato anche al palazzo presidenziale di Heliopolis, una strana architettura novecentesca tra il neoclassico europeo e l'islamico, dove si è schierata in forze la guardia nazionale per difendere un uomo che ieri sembrava liquidato anche dai militari, storico epicentro del potere in Egitto, gli arbitri supremi dei destini della nazione. Ora anche questo giudizio va rivisto: si sono sbilanciati a favore del popolo, poi, almeno per questa volta, non hanno avuto il coraggio o la volontà di accompagnare alla porta il rais.

La delusione maggiore non l'ha data Mubarak ma i generali che avevano fatto credere di essere pronti a intervenire per licenziare prima della scadenza del mandato il presidente che è anche il capo supremo delle forze armate. C'erano anche i presupposti: le proteste di piazza Tahrir si sono allargate a tutto il paese e da qualche giorno si sono propagati gli scioperi in alcuni centri strategici, dal canale di Suez alle grandi industrie tessili del Delta, fino ai dipendenti delle ferrovie e dei ministeri. Un'instabilità che sta portando il paese vicino al collasso: il quadro tipico che in Egitto prelude – ma anche altrove – all'intervento dell'esercito.

La cronaca di questa giornata, che sembrava l'ultima di Mubarak, è cominciata alle 16,28, quando in un crepuscolo fatale, tra mille bandiere, davanti a una folla di almeno 200mila persone, diventate un milione nella notte più emozionante e deludente del Cairo, il generale a quattro stelle Hassan al Rowhani, comandante della regione militare della capitale, sale sul palco di piazza Tahrir. Annuncia «buone notizie al popolo» mentre uno dei soldati della Guardia Nazionale appoggia la mano con una carezza affettuosa e inattesa sul berretto di Ahmed Maher, uno dei leader del «6 aprile», il movimento partito su Facebook tre anni fa che ha sconvolto l'Egitto.

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Tags Correlati: Ahmed Maher | Egitto | Forze Armate | Google | Hosni Mubarak | Medio Oriente | Mohamed Tantawi | Mohammed Salah | Nabil Fattah | Omar Makram | Omar Suleiman | Politica | Wael Ghoneim

 

Ahmed, Ahmed! «Generale, generale!», gridano i soldati, «Ahmed, Ahmed!», urla la folla. Hosni Mubarak sembrava potesse andarsene così, con un generale e un blogger insieme sul palco a fare la rivoluzione più incredibile della storia, con 400 milioni di arabi incollati a guardare le tv satellitari. I blogger avevano scosso il paese radunando milioni di persone in piazza, i militari, ago della bilancia dal l'ascesa di Nasser nel 1952, stavano dando, apparentemente, la spallata finale.

L'ultimo atto di Mubarak si profilava come un colpo di stato, la cui unica avvisaglia era stata una colonna di un centinaio di tank e blindati della Guardia Repubblicana che avevo visto ieri mattina sulla strada dell'aereoporto. L'addio sembrava fatto dopo la riunione dell'alto consiglio militare presieduto dal ministro della Difesa Mohamed Tantawi. Il vertice si era concluso con un comunicato, letto in tv, denominato pomposamente "Dichiarazione numero uno": vi si affermava che le forze armate avevano deciso «di andare incontro alle richieste del popolo e che intervenivano per proteggere la nazione e salvaguardare gli interessi del paese». Una dichiarazione che appariva un benservito clamoroso a Mubarak e la presa del potere da parte delle forze armate, in breve un colpo di stato. Invece tutto si è risolto in una sorta di beffa, un "golpe bianco", dove il rumor di sciabole è rimasto attutito sullo sfondo delle grida di Piazza Tahrir.

Domani c'è un nuovo ordine ci aveva avvisato un importante analista politico: «I generali chiederanno ai giovani di tornare a casa, poi scioglieranno il parlamento, cancelleranno la costituzione ed eserciteranno l'autorità effettiva nel paese», diceva Nabil Fattah del centro studi Al Arham. La sua voce arrivava coperta dalle urla e dagli slogan della piazza che oltre a Mubarak non vuole neppure più vedere il suo vice, l'ineffabile Omar Suleiman che ieri ha esertato la folla «Andate a casa, tornate a lavorare».

L'Egitto, 80 milioni, una nazione strategica nel cuore del Medio Oriente, primo paese a firmare la pace con Israele, pensava di avere riscattato trent'anni di elezioni truccate, leggi e tribunali speciali, arresti arbitrari, censura, torture e corruzione. Quella di Mubarak non è stata la peggiore delle autocrazie viste in Medio Oriente, ha anche assicurato stabilità e combattuto i radicali islamici ma per questo popolo, mite e gentile, è diventata insopportabile, dominata da un comitato d'affari che ignorava i bisogni urgenti di un paese dove il 40% vive sotto la soglia di povertà, meno di 2 dollari al giorno.

L'Egitto sta pagando un prezzo alto a questa liberazione mancata: in due settimane 300 morti e 10mila arresti. E si può immaginare la cocente delusione dei rivoluzionari del web, senza capi e con molti eroi come Ahmed Maher, Karim, lo studente di ingegneria e la sua testa fasciata dalle ferite, come il medico Mohammed Salah e il suo ospedale da campo, come Wael Ghoneim, il manager di Google.
Per difendere la piazza della Libertà si è combattuto sanguinosamente sulle barricate: 10 morti e centinaia di feriti. Ma questa piazza dall'architettura incompiuta, circolare al centro e sghemba ai lati, dove la moschea di Omar Makram convive accanto a un edificio sovietico allegro come la Lubjanka, è stato anche lo specchio del paese dove convergevano milioni di egiziani, uomini e donne, che avevano finalmente trovato una voce.

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