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Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2011 alle ore 19:05.
Pecunia non olet, si diceva in latino. O per gli amanti del mondo e del linguaggio anglosassone: money is money. Anche il fisco sceglie questa linea nel contrasto all'evasione. Il redditometro, quindi, non fa, né può fare differenze. Le escort devono dichiarare tutto. E non sono ammesse giustificazioni «morali» o, tantomeno, che i compensi percepiti siano da considerare una forma di risarcimento per la lesione della dignità personale derivante dall'attività svolta. Attività, come precisato dalla stessa ricorrente, «assimilabile, con i dovuti distinguo del caso, all'attività di prostituta». Lo afferma chiaramente la Commissione tributaria provinciale di Novara con la sentenza 2/01/11.
La vicenda
L'Agenzia delle entrate aveva accertato con il redditometro una escort. Gli indici di capacità contributiva della donna avevano fatto emergere che poteva disporre di un reddito di quasi 130mila euro per ciascuno degli anni dal 2004 al 2006. Risultava proprietaria di immobili, intestataria di un'assicurazione e aveva sostenuto diverse spese per incrementi patrimoniali. Una volta ricevuto l'avviso di accertamento, la diretta interessata aveva presentato ricorso ai giudici tributari. Perché? Sosteneva che i soldi ricavati come escort e accompagnatrice in realtà dovessero essere interpretati come una sorta di indennizzo per l'affronto della vendita del proprio corpo. L'amministrazione finanziaria, però, ha fatto riferimento all'orientamento dei giudici comunitari. Già la sentenza della Corte di giustizia C-268/99 aveva affermato che la prostituzione è «caratterizzata dalla natura economica e da uno svolgimento in forma di lavoro autonomo, non sussistendo alcun vincolo di subordibnazione in capo a chi la esercita». In pratica, la prostituzione è un lavoro autonomo e redditi percepiti si dichiarano.
La decisione
La Commissione tributaria, investita del caso, ha ritenuto pienamente corretto l'operato dell'ufficio. Punto primo la escort non aveva negato quegli indici di capacità contributiva (gli immobili, la polizza) su cui il fisco si era basato ma aveva semplicemente affermato di possedere un reddito che «ne giustificava il mantenimento e che tale reddito non era imponibile» perché derivava dall'attività esercitata «assimilabile a quella di prostituzione». Punto secondo, la donna non ha provato quale fossero le somme effettivamente percepite e quelle spese. Punto terzo, la motivazione della presunta natura risarcitoria degli incassi non è accettabile.