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D'Alema: Gheddafi fermi la repressione. In Libia servono elezioni libere

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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2011 alle ore 08:12.

Presidente D'Alema le notizie che arrivano dalla Libia sono drammatiche. Lei, per l'Italia, è stato un interlocutore della prima ora del colonnello Gheddafi, cosa si sente di dirgli?
Innanzitutto che fermi la repressione. Il nostro paese può e deve fare pressione perché la protesta non venga repressa nel sangue. I diritti umani, per prima cosa, devono essere tutelati.

Ma Gheddafi ha ancora un futuro o sarà travolto dalla primavera araba come Mubarak o Ben Alì?
C'è una forte stanchezza del suo regime. Ma certamente Gheddafi ha ancora un rapporto solido con una parte della società libica e la crisi economica qui non ha colpito come in altri paesi arabi. La Libia è poi un paese di pochi abitanti, con un Pil pro-capite elevato. È chiaro, però, che anche qui senza riforme democratiche le tensioni non cesseranno e si potrebbe arrivare a un sovvertimento del regime. C'è da sperare in un'evoluzione positiva.

La Libia è un paese chiave per le nostre provviste di petrolio e gas. Oltre a sperare, cosa può fare l'Italia?
Incoraggiare Gheddafi a fare le riforme, a tener conto della protesta popolare. Vanno legalizzati i partiti, bisogna tenere regolari elezioni, garantire i diritti umani, dare più libertà e democrazia. Questa è la risposta.

La rivolta arriva in Libia dopo aver infiammato la Tunisia, l'Egitto, l'Algeria. Sono paesi strategici per gli interessi italiani. Abbiamo più motivi di preoccupazione o di speranza?
Il fatto che grandi paesi, attraverso processi certamente complessi e incerti negli esiti, si affaccino alla democrazia è in assoluto positivo. Questo a prescindere dall'impatto sull'Italia. Poi l'Italia è un paese democratico, e quindi dovrebbe avere a cuore un'evoluzione in questo senso di altri paesi. Il problema è che fino ad oggi si era ritenuto, da parte di tutti, che la stabilità dell'area coincidesse con la continuità. Ora le cose sono cambiate, e bisognerebbe ripensare dalle fondamenta sia la politica italiana che, soprattutto, quella europea.

Ma le incognite sono tante.
Ovviamente è un processo che non è finito. L'esito dipenderà anche dalla capacità di vecchi e nuovi governanti di dare una risposta alle domande della piazza. Ma siamo davanti a un grande cambiamento. Ed è paradossale che l'Occidente, dopo aver teorizzato l'esportazione "forzata" della democrazia con la dottrina Bush, sia spaventato ora perché questi popoli cercano di incamminarsi verso la democrazia con le proprie gambe. Quanto accade dimostra che la democrazia deve nascere dall'interno e spontaneamente, non si può imporre dall'esterno.

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Sono timori giustificati: si sta chiudendo un'esperienza che, tra mille contraddizioni, aveva garantito la stabilità in un'area esplosiva per gli equilibri mondiali.
Per troppo tempo abbiamo avuto un approccio all'area fondato solo sulla nostra sicurezza e sui nostri interessi economici. Diciamo la verità: quei dittatori erano utili ai nostri interessi. La democrazia era per noi un'affermazione retorica. Perciò questo sommovimento sembra una minaccia. Ma solo le democrazie sono vera garanzia di stabilità.

Attraverso la democrazia non possono prevalere i partiti islamisti che poi negano la democrazia?
Senza dubbio i movimenti islamici avranno uno spazio maggiore. Ma questo fa parte della democrazia. Bisognerà aiutarli nella loro evoluzione. E tener conto delle diversità dei singoli paesi. In Tunisia il problema non c'è. È un paese modernizzato, laico, con classi medie mature. L'Egitto è certamente un'incognita maggiore: in piazza è andato un popolo più povero, è stata una rivoluzione senza testa. Ma i sondaggi dicono che i Fratelli musulmani hanno una potenzialità elettorale del 25-30%.

Non è poco.
Neppure tanto. E poi i Fratelli musulmani non sono più quelli di decenni fa. Bisogna finirla con la criminalizzazione di questi movimenti: l'equazione islamismo uguale integralismo, se non addirittura terrorismo, è rozza. Io penso anche che sia stato un errore non parlare con Hamas, figuriamoci.

Le sono piovute addosso non poche critiche per questo quando era ministro degli Esteri.
L'atteggiamento dell'Occidente dopo le elezioni palestinesi è stato un duro colpo alla credibilità dei nostri paesi. Una delle ragioni per cui noi siamo percepiti come una forza di sostegno agli autocrati - e in questo l'Europa più degli Stati Uniti - è l'avere imposto ai palestinesi le libere elezioni, aver detto che erano regolari, e poi non aver voluto parlare con chi aveva vinto. Certo, Hamas era un interlocutore scomodo, ma inevitabile dopo che lo avevano scelto i palestinesi.

Cosa deve fare allora l'Occidente per sventare i rischi di radicalizzazione di queste proteste?
Deve scommettere sulla democrazia. Se vogliamo che l'islamismo non si trasformi in integralismo dobbiamo cambiare atteggiamento. Se ci presentiamo come coloro che vogliono mettere quei movimenti al bando, sostenendo le dittature, inevitabilmente crescerà il risentimento antioccidentale. Dobbiamo scommettere sulla possibilità di un islamismo democratico, come in Turchia. Abbiamo perso troppo tempo. E non c'è stata alcuna capacità di previsione di quanto stava avvenendo. Neanche da parte americana.

Questo non compromette la nostra possibilità di contribuire a un'evoluzione positiva delle rivolte?
Gli Stati Uniti appaiono come un interlocutore più interessante per la piazza araba dell'Europa. Anche perché l'Europa è più compromessa con le vecchie oligarchie nel nome della sicurezza e degli interessi economici.

Lei parla di interessi economici. Sono interessi importanti per l'Europa e per l'Italia, non rischiamo un salto nel buio?
Insisto. La democrazia, se ci sarà, porterà modernizzazione, crescita, sviluppo economico, maggiori consumi. Per la nostra economia e per le nostre imprese può essere una grande opportunità. Nel passaggio tra vecchi legami fondati sulla corruzione al rapporto con mercati potenzialmente liberi e aperti possiamo certamente guadagnarci.

Il Mediterraneo può diventare un'area economica di forte crescita?
Nel medio periodo senza dubbio. Si allargheranno le opportunità economiche. Certo bisogna aiutare questi paesi a superare la fase di transizione.

Frattini ha parlato di un piano Marshall.
Il prossimo Consiglio europeo discuterà un programma per il Mediterraneo. Di certo finora la politica europea per il Mediterraneo è stata fallimentare. Lo testimonia il mancato decollo dell'Unione per il Mediterraneo. È urgente che ci sia un'iniziativa europea per questi paesi.

Cosa può fare di concreto l'Europa?
Dal punto di vista politico può intervenire per favorire la transizione verso regimi democratici. Cosa che dovrà avvenire in mesi, non in anni. Perché se tutto questo si traduce nel passaggio dai dittatori a regimi militari duraturi non sarà un gran vantaggio. Dal punto di vista economico, poi, certamente serve un piano di aiuti, anche per prevenire un'emergenza umanitaria che già si sta traducendo in un'ondata di profughi.

Ci sono nel mondo arabo paesi che possono essere presi a modello?
Il Marocco, con Hassan II prima e poi con Muhammad VI, ha fatto importanti riforme democratiche, ha sperimentato il pluripartitismo, pur con prerogative reali molto forti. Sicuramente è più avanti degli altri. Anche se non si può dimenticare la realtà drammatica del Sahara occidentale e della repressione di quanti si battono per l'autodeterminazione di quel popolo. Un altro paese è il Libano, anch'esso è un esempio di evoluzione democratica.

Che impatto avranno queste rivolte sul conflitto israelo-palestinese?
Non c'è dubbio che ci saranno conseguenze anche in quell'area. Israele ha guardato con molta diffidenza a questo processo. Il che può essere paradossale se consideriamo che per anni ha vantato di essere l'unica democrazia della regione. Chiedendo per questo anche la solidarietà dei paesi occidentali.

Israele ha il problema della sua esistenza. E teme evidentemente il venir meno di quelli che considera baluardi davanti al dilagare del fondamentalismo.
Intanto usare le dittature come baluardi non è una buona regola. È una politica che può essere utile nel breve periodo, ma alla lunga è destinata ad essere perdente e, comunque, è indegna di un mondo occidentale che fa del rispetto dei diritti umani e di quelli civili e politici la sua bandiera. Ma al di là della indegnità morale è proprio che non è utile.

Anche per Israele, quindi, è meglio scommettere sulle democrazie, anche se a rischio islamismo?
Anche Israele dovrebbe rallegrarsi della diffusione della democrazia. Le ricadute potrebbero essere positive anche per la sua sicurezza. Certo deve capire che nessuna democrazia, che sia potenzialmente l'Egitto o altri paesi, potrà mai accettare quello che fa Israele con gli arabi. Non è accettabile non rispettare le risoluzioni dell'Onu e i diritti umani dei palestinesi. Il problema riguarda Israele, non l'Egitto. Se il mondo gli dice che non devono più costruire insediamenti dove non è casa loro, non devono farlo.

Proprio ieri il consiglio di sicurezza Onu ha votato contro gli insediamenti.
È una cosa molto importante. Sconcerta che gli Stati Uniti da soli abbiano deciso di votare contro. Perché questo alimenta il sospetto che la più grande potenza dell'Occidente continui ad avere un doppio standard. Il che non aiuta certo, nel mondo arabo, la simpatia verso la democrazia americana. Una volta tanto, i paesi europei hanno fatto la cosa giusta.

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