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Questo articolo è stato pubblicato il 01 marzo 2011 alle ore 09:31.
L'ultima modifica è del 01 marzo 2011 alle ore 09:32.

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È venuto il momento d'infrangere, una volta e per tutte, il soffitto di cristallo. Che le donne possano dispiegare il proprio talento è un problema di uguaglianza, certo, ma anche economico. Perché l'impresa è donna anche se i fatti dipingono un'altra realtà: ai vertici amministrativi delle imprese della Ue c'è una donna ogni dieci uomini e le amministratrici delegate sono appena il 3%. L'uguaglianza tra uomini e donne è un principio fondatore dell'Europa che risale al 1957, quando la parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro fu sancita dal trattato di Roma. Alcuni paesi europei hanno fatto scuola: la Norvegia nel 2003 ha fissato per prima al 40% la quota di donne nei cda, seguita nel 2007 dalla Spagna e poi dall'Islanda, che lo scorso anno ha introdotto le quote per genere. In gennaio la Francia, culla dell'uguaglianza, ha approvato una legge che entro il 2017 porterà al 40% le donne dei cda nelle maggiori società quotate in Borsa. In Germania i politici s'interrogano sul merito d'imporre il cambiamento dall'alto mentre l'Austria valuta eventuali azioni in tal senso. In Italia è già stata approvata alla Camera dei deputati ed è tuttora in discussione al Senato una proposta di legge che prevede l'introduzione di una quota del 30% di donne nei cda delle società quotate, delle controllate dalle amministrazioni dello stato e nei loro collegi sindacali.

Le quote sono tuttavia uno strumento controverso che permette sì di assestare un colpo deciso al soffitto di cristallo ma non di raggiungere risultati precisi: in Norvegia, la percentuale di donne negli organi di vigilanza è passata dal 25% nel 2004 al 42% nel 2009, mentre in Spagna è progredita dal 4% nel 2006 a un misero 10% nel 2010. Le quote possono servire a far avanzare le cose ma non bisogna dimenticare che sono scelte transitorie e di ultima ratio.
Andremo avanti in due fasi: in un primo tempo, sarà il mondo delle imprese a dover proporre soluzioni. Nei prossimi mesi la Commissione europea e diversi governi nazionali si incontreranno con i dirigenti delle maggiori società del continente quotate in Borsa per ascoltare le iniziative di autiregolamentazione con cui intendono promuovere la partecipazione femminile ai massimi vertici decisionali. L'autoregolamentazione può funzionare, ma solo se strettamente monitorata. Se i progressi non saranno credibili, si passerà alla seconda fase in cui sarà l'Europa a imporre quote giuridicamente vincolanti, rilanciando così la palla nel campo delle aziende.

La necessità di una maggiore partecipazione delle donne ai vertici aziendali è più forte che mai. Man mano che in Europa si assottigliano le finanze nazionali e l'economia esce dalla recessione, il capitale umano è chiamato a svolgere un ruolo centrale per il rilancio della competitività europea a livello mondiale. Una ricerca condotta da Goldman Sachs mostra che, colmando il divario di genere, il Pil nella zona euro potrebbe arrivare fino al 13 per cento.
Sul versante delle imprese la situazione è altrettanto evidente. Da un'analisi di McKinsey risulta che l'utile operativo delle imprese con più donne al vertice è del 56% maggiore rispetto a quello delle imprese dominate da uomini. È una questione di profitto. Rispetto ai consigli composti da soli uomini, quelli con più donne conseguono risultati migliori in termini di audit, gestione e controllo dei rischi.
In famiglia sono le donne a prendere l'80%delle decisioni di acquisto, e non stiamo parlando del pane o del detersivo: provate a chiedere chi ha scelto l'ultimo computer!

In fatto di partecipazione femminile ai vertici aziendali, ci auguriamo che l'Europa passi alla velocità superiore. I nostri obiettivi si vogliono ambiziosi. Entro il 2015 come minimo il 30% dei cda dovrebbe essere aperto alle donne, per poi arrivare al 40% entro il 2020. Un risultato che idealmente le imprese dovrebbero raggiungere da sole. Se così non fosse, siamo comunque pronti a intervenire, già dal 2012, per fare pressione sul piano regolamentare, ove fosse veramente necessario.
È il momento di agire. La crisi del debito pubblico rischia di rallentare la crescita economica e occupazionale e non ci possiamo permettere di fare a meno del talento di metà della popolazione. Alcune imprese conoscono già il valore economico dell'uguaglianza, altre sono più lente a reagire.
Il vento del cambiamento soffia a grande velocità e i dirigenti aziendali devono decidere: aspettare che il soffitto di cristallo crolli da solo o armarsi di piccone e aprire una prima breccia?

* Viviane Reding è vicepresidente della Commissione europea Lella Golfo è deputato Pdl

COSÌ NEI CDA DELLE QUOTATE

1. IN ITALIA
Verso l'approvazione una legge che prevede una quota rosa del 30% da introdursi con gradualità (2021)

2. IN FRANCIA
Una legge prevede una quota rosa del 40 % che dovrà essere raggiunta entro il 2017

3. NEL REGNO UNITO
Non c'è un obbligo ma la raccomandazione di avere in due anni il 20% di «consigliere» nelle società Ftse 350

4. IN SPAGNA
La quota rosa esiste già dal 2007, ma l'anno scorso è arrivata solo al 10% (nel 2006 era del 4%)

5. IN NORVEGIA
Qui la quota rosa è in vigore dal 2003 ed è passata dal 25% del 2004 al 42% del 2009

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