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Questo articolo è stato pubblicato il 02 marzo 2011 alle ore 09:19.
L'ultima modifica è del 02 marzo 2011 alle ore 09:29.

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Da Napoli ai referendum, come Di Pietro condiziona il Pd (Foto Ansa)Da Napoli ai referendum, come Di Pietro condiziona il Pd (Foto Ansa)

Nelle alchimie del Partito democratico il rapporto con Di Pietro resta cruciale. Nel senso che si tratta di un ostacolo difficile da aggirare, ma troppo ingombrante per assorbirlo in una normale politica delle alleanze. In sostanza il problema del «che fare» con l'ex magistrato si trascina irrisolto.
È vero che il tempo passa per tutti e il capo dell'Italia dei valori non è più quello di dieci anni fa. L'avvento sulla scena di Nichi Vendola ha spostato gli equilibri nell'area a sinistra del Pd e il presidente della Puglia è stato abile a richiamare su di sé l'attenzione mediatica.

Poi sono avvenuti, come è noto, alcuni passaggi di campo a vantaggio del Pdl che hanno attirato una pessima pubblicità sui parlamentari dipietreschi. Tuttavia l'idea che l'Italia dei valori e il suo leader possano essere facilmente messi in un cantone da Bersani e D'Alema è piuttosto virtuale.
In primo luogo manca una solida alleanza alternativa in grado di rendere credibile l'abbandono al suo destino dell'Idv. Se si fosse realizzata l'intesa fra il Pd e il «terzo polo» di Casini e Fini (e se si fosse votato subito), forse l'operazione poteva essere tentata. Ma non bisogna dimenticare che Vendola non ha alcun interesse ad allearsi con Bersani lasciando fuori Di Pietro: vorrebbe dire regalare a quest'ultimo uno spazio elettorale consistente, specie se l'intesa con il Pd fosse segnata da un profilo centrista e moderato.

Oggi, in ogni caso, con Casini che rivendica l'autonomia del «terzo polo», Di Pietro è più che mai in grado di giocare le sue carte e di condizionare le scelte del Pd. La tensione permanente legata ai processi di Berlusconi ovviamente lo favorisce. Così come lo aiuta la polemica sul conflitto di attribuzione sollevato dalla maggioranza alla Camera sul «caso Ruby».

Ma soprattutto due fatti sono destinati a scandire i prossimi mesi e a determinare forse il quadro delle alleanze nel centrosinistra. Il primo è l'appuntamento primaverile con i quattro referendum le cui firme sono state raccolte con puntiglio dall'Idv. Uno di essi, quello sul «legittimo impedimento», sembra pensato per trasformarsi in un plebiscito pro o contro Berlusconi. Diventerà una potente arma nelle mani di chi saprà usarla.

Non è un mistero che il resto dell'opposizione, da Bersani a Casini, non ha alcun desiderio di farsi trascinare in una battaglia «giustizialista» (e populista) in cui i due unici protagonisti sarebbero, appunto, Di Pietro e Berlusconi. Ma non sarà facile per nessuno sottrarsi alla campagna e provocare il fallimento del referendum attraverso l'astensione. È anche vero che sul tema non esistono «patti» ufficiali tra Fini e l'ex magistrato, benché non sia affatto sorprendente che il partito del presidente della Camera guardi con favore (a differenza di Casini) alla possibilità d'infliggere a Berlusconi una storica sconfitta referendaria.

Secondo punto, la candidatura di De Magistris come sindaco di Napoli alla testa di una lista civica. Per il Pd, tuttora privo di un candidato, è un doloroso colpo basso. Il rischio è che De Magistris occupi tutta la scena e releghi in un angolo l'uomo (o la donna) del Pd. Oppure che costringa il resto del centrosinistra ad accodarsi al suo nome. In un caso come nell'altro la battaglia del Pd per il Comune ha l'aria di essere finita prima ancora di cominciare. Mentre si dimostra che con Di Pietro bisognerà fare i conti fino in fondo.
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