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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2011 alle ore 15:45.
L'ultima modifica è del 06 marzo 2011 alle ore 15:44.

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Libertà e petrolio le voci di TripoliLibertà e petrolio le voci di Tripoli

Lo so che il tema che più desta la nostra attenzione, e le nostre preoccupazioni, è oggi la Libia. È lì la rivolta popolare nordafricana dall'esito più incerto, quella che può trasformarsi in una guerra civile o addirittura in un conflitto armato più ampio, con l'intervento dell'Onu, forse della Nato e quindi in qualche modo della stessa Italia. Per non parlare delle conseguenze economiche di tutto ciò, a partire dal petrolio.
Ma dal Nordafrica non ci vengono solo preoccupazioni. Quello che è successo in Tunisia e in Egitto, che neppure sappiamo come andrà a finire, è stato segnato da novità che possono avere riflessi positivi sulla vitalità e le prospettive delle nostre stesse democrazie.

Ed è proprio su tale aspetto, riguardante temi più volte toccati su queste colonne da Gianni Riotta, che vorrei attrarre l'attenzione dei lettori.
Da tempo si parla in Occidente di democrazie malate e la malattia viene ricondotta a due fattori diversi, che si sono connessi perversamente fra loro. Per mille ragioni è intervenuta una crescente individualizzazione delle nostre vite, che ha reso sempre più marginali e sottili i legami associativi che portavano ciascuno a vivere una parte del suo tempo insieme ad altri e a formare con loro le sue opinioni.

È capitato così con i partiti politici, con i sindacati e con altre esperienze comunitarie che, specie in alcuni dei nostri paesi (con gli Stati Uniti in testa) costituivano il tessuto vivente della democrazia dei cittadini.

In questa chiave Tocqueville aveva letto la democrazia americana, ma proprio dall'America venne anni fa il grido d'allarme di Robert Putnam, quando scoprì che i suoi concittadini sempre più vanno a giocare a bowling da soli (Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, Simon & Schuster, 2001). Tra lavoro, spostamenti, spesa, cura dei figli è già molto se si salva il week end. Gli altri giorni si finisce in casa, in famiglia ed è lì ormai che si formano le opinioni dei più sugli affari collettivi. Come? Attraverso i mass media, che diventano perciò la fonte dominante.

E qui entra il secondo fattore, il ruolo appunto dei media, e principalmente della televisione, come veicoli di messaggi politici nei quali tendono a prevalere la semplificazione dell'unilateralità, l'anatema del nemico, l'appello alle emozioni anziché alla ragione. E non per una naturale propensione della tv a veicolare solo questo, ma per una facile alleanza fra i canali che essa offre e una politica che non ha più le comunità intermedie nelle quali si formavano dialogicamente le sue posizioni e che di conseguenza si rivolge direttamente ai cittadini e cerca con loro la via più facile, quella di eccitarli contro un nemico e di fidelizzarli come tifosi.

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