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Questo articolo è stato pubblicato il 08 marzo 2011 alle ore 08:54.
L'ultima modifica è del 08 marzo 2011 alle ore 06:39.

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In condizioni normali, le riforme cosiddette «di sistema» sono un'occasione di confronto tra maggioranza e opposizione; e magari il confronto porta all'accordo. Ma il caso italiano è diverso, come è noto. Ora che le elezioni sono accantonate, almeno fino al 2012, il richiamo alle riforme serve più che altro a rinfocolare il conflitto politico. È il caso del progetto sulla giustizia che il Consiglio dei ministri si prepara ad approvare per consegnarlo al Parlamento.

È difficile credere che potrà dar luogo a un dialogo realistico. Con il premier impegnato a difendersi in una serie di processi e con l'associazione dei magistrati già all'opera per costruire le barricate, la prospettiva è tutt'altro che incoraggiante.
Sappiamo che il profilo costituzionale della riforma Alfano (separazione delle carriere, doppio Csm) non solo suggerisce, ma impone una forma d'intesa tra maggioranza e opposizione. In mancanza, il corto circuito è sicuro. Il che vuol dire magistrati che fanno muro, centrosinistra appiattito sulle loro posizioni, «terzo polo» più incerto ma con scarsi margini di manovra; e centrodestra che può sventolare la sua bandiera contro i giudici «eversori». Ognuno recita la sua parte nel dramma e naturalmente la riforma finisce triturata nella tempesta. Anche perché, se fosse votato a maggioranza semplice, il disegno di legge costituzionale andrebbe sottoposto a referendum.

Si capisce allora che la riforma Alfano ha scarse probabilità di vedere la luce in questo scorcio di legislatura e in un clima politico così limaccioso. Tanto più che al progetto si affianca un complesso di norme ordinarie su cui il paese e la società politica sono già spaccati: immunità parlamentare, intercettazioni telefoniche, processo breve.
Tutto si mescola fino alla solita paralisi. La riforma Alfano presenta aspetti positivi, avanza proposte per il riordino del sistema giudiziario su cui da tempo si discute (compreso il fatidico divorzio fra pubblici ministeri e giudici). Ma le voci ragionevoli negli opposti campi oggi sono ridotte al silenzio. Il sovrapporsi di priorità diverse, sullo sfondo del contenzioso sempre aperto tra Berlusconi e la procura di Milano, deforma qualsiasi confronto. Anzi, lo inibisce.
Naturalmente c'è del metodo in tutto ciò. Quello che serve a Berlusconi è una «giustizia politica» contro cui scagliarsi. Se la sola ipotesi di riforma produce la reazione dei magistrati e, sul piano politico, il ritorno al centro della scena di Di Pietro, l'obiettivo del premier è già quasi raggiunto. Berlusconi può promettere una «riforma epocale» senza avere alcuna certezza di tradurla in pratica (salvo qualche aspetto). La magistratura e una parte dell'opposizione, a loro volta, possono continuare a serrare le file contro la minaccia berlusconiana. Ognuno mantiene ben vivo il suo nemico e il tempo passa. Il premier si occupa dei suoi processi, ma può dire a se stesso e al suo elettorato di aver lanciato un grande piano riformatore che solo l'alleanza corporativa dei conservatori rende impraticabile. L'equivoco nazionale si perpetua, nel generale disincanto.

Domenica scorsa Gianfranco Fini ha denunciato il «conservatorismo» sia della destra sia della sinistra. Potrebbe aver ragione, se non fosse che la constatazione è figlia del bisogno del presidente della Camera di prendere le distanze da Bersani e D'Alema ora che la «santa alleanza» è rinviata. Ma il conservatorismo è l'altra faccia di un sistema ingessato.

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