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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2011 alle ore 15:26.

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In nome della rivoluzione, per la rivoluzione, sotto l'ombrello della rivoluzione. Gli abitanti di Bengasi sono pronti a tutto pur di difendere la "Cirenaica liberata". Pronti a offrire il proprio contributo, a creare dalle ceneri uno stato che ancora non c'è. Così, a Bengasi i tir delle compagnie private raccolgono i rifiuti, le cliniche per ricchi divengono pubbliche, anziani professori dirigono centri stampa e quotidiani e le poche donne d'affari si improvvisano cuoche per spedire pasti ai volontari sul fronte. In nome della rivoluzione il circolo dei businessman di Bengasi si è trasformato in una fondazione di solidarietà.

La capitale dello stato che ancora non c'è sta cercando di organizzarsi, e resistere. Sono già passate più di tre settimane dal 17 febbraio, quando i giovani dimostranti, dopo essere stati massacrati dalle forze di polizia, appiccarono il fuoco a tutte le caserme e agli edifici governativi. Da allora tutto è fermo. Sono chiuse le scuole, chiuse le università, le imprese, le istituzioni. Non ci sono forze dell'ordine, né il municipio. Non i vigili del fuoco, né i vigili urani (subito rimpiazzati con ragazzini armati di paletta). Si fatica a immaginare come una città di 700mila abitanti possa andare avanti di questo passo. Saad Ghazal , proprietario di una ditta per l'import di macchinari edili, è orgoglioso: «Avete mai visto una città dove tutti possiedono un'arma e non ci sono praticamente crimini? Dove le proprietà private abbandonate non sono custodite e sono ancora lì, intatte?».
L'euforia per il dopo Gheddafi è stata un'onda che ha travolto tutto e tutti; dai ricchi ai poveri, dai conservatori ai più laici. Eppure ogni giorno che passa è sempre più difficile. Se il raìs non cederà, cosa improbabile, per il secondo mese molti abitanti di Bengasi resteranno senza stipendio. «Siamo abituati – minimizza Ghazal - quando Gheddafi nel 1983 nazionalizzò quasi tutte le imprese private creò un esercito di funzionari pubblici. Ma ci discriminò. A volte gli stipendi sono arrivati con tre mesi di ritardo».

Ci sono problemi, tuttavia, difficili da risolvere. Il paese dove un litro di benzina costa 10 centesimi di euro, molto meno di una bottiglietta d'acqua, rischia di ritrovarsi a secco. Quasi tutte le raffinerie in mano ai ribelli sono chiuse o quasi. «Se non succede nulla resteremo a secco di benzina in nove giorni», spiega Magdi Raid, ingegnere presso la Brega Petroleum Marketing, la compagnia statale che controlla gli approvvigionamenti di benzina. Per ora la città resiste. Perché qui, nonostante tutto, non c'è una crisi umanitaria. Lo sanno bene gli operatori delle Ong internazionali, accorsi pensando di trovare un disastro. Oggi si aggirano disorientati tra i corridoi degli hotel. «Hanno cibo e scorte di medicinali per tre mesi, non ci sono profughi, le famiglie si prendono cura degli orfani, e migliaia di medici egiziani collaborano con i libici», ci spiega un funzionario di una Ong per la protezione dei bambini. «Quando abbiamo proposto loro un piano di medio termine ci hanno risposto: prima c'è la rivoluzione, poi pensiamo al resto».

La rivoluzione, appunto. I comitati locali che hanno preso in mano la situazione, ripartendosi i settori pubblici, sembrano funzionare. Eppure è ancora difficile capire chi sia il responsabile, e spesso non parlano con la stessa voce. Lo stesso dicasi per il Comitato nazionale, il governo de facto della Cirenaica attivo da due settimane. La rivoluzione è di tutti, ripetono; dei ricchi e dei poveri, degli uomini e delle donne, che sono presenti in molti settori, e vogliono mostrarlo. La scuola privata Erteka, a 15 minuti dal centro città, si è trasformata in una catena di montaggio. Sotto la direzione di Huda Ali Asnine, professoressa di inglese, cento donne preparano 2mila sandwich la mattina e cucinano riso e carne in grande pignatte. Molte di loro hanno i loro ragazzi che combattono sul fronte, alcune li hanno già perduti. «Se uccideranno tutti i nostro figli andremo noi a combattere», spiega Huda. Oggi è soddisfatta per i 3mila dollari raccolti. Altre donne costituiscono l'ossatura dell'ufficio traduzioni, allestito in un'altra scuola, altre ancora lavorano alla radio o nel reparto sartoria. Khaled Madi, 47 anni, possiede una ditta di trasporti di medie dimensioni. Da 15 giorni ha messo a disposizione i suoi camion per raccogliere la nettezza urbana. «Al circolo dei businessman ci incontriamo quasi ogni giorno. Ci distribuiamo i compiti: chi paga le spese per far operare i feriti in Egitto, chi per far arrivare materiale negli ospedali, alcuni colleghi hanno inviato i loro dipendenti a ripulire i palazzi date alle fiamme. Chi aveva una compagnia di catering fornisce ora cibo agli ospedali». In diversi hanno prestato denaro, senza interessi, ai bisognosi. «Io ho offerto 20mila dollari, e certo non li chiederò indietro – conclude Khaled - ma c'è chi ha donato molto di più».

Tra pochi giorno la rivoluzione compirà un mese. Eppure le strade della città sono ancora invase da giovani che urlano slogan contro il raìs. Gheddafi è l'incubo, il terrore. Ma anche il collante che tiene tutti uniti. Gheddafi. Nel vocabolario di Ahmed, 40 anni , ingegnere petrolifero e ora tassista, il nome del raìs è un'ossessione. «Vedete quanta spazzatura per strada nonostante la nostra ricchezza petrolifera? È colpa di Gheddafi, della sua corruzione». Ci affianca un'auto tenuta insieme da un filo di ferro. Ahmed inveisce: «Colpa di Gheddafi». Gli alloggi mancano, le strade sono sconnesse, l'acqua a volte non funziona? Gheddafi, sempre Gheddafi. Fino al paradosso. Davanti alla luce rossa del semaforo che non sembra mai terminare, Ahmed ringhia tra i denti: «Se e' fatto così male è senz'altro colpa di Gheddafi».

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