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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2011 alle ore 09:27.
L'ultima modifica è del 23 marzo 2011 alle ore 09:28.

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L'Italia si muove nella guerra libica divisa tra ragione e cuore. Con la ragione reclama che la Nato prenda la guida della coalizione, limitando il protagonismo francese ed evitando – negli auspici – che il dopo-Gheddafi si svolga domani sotto la prevalente influenza di Parigi. E la speranza, nemmeno segreta, è che all'Italia sia riconosciuto il coordinamento della struttura Nato.
Con il cuore l'Italia di Berlusconi è molto più vicina alla Germania di quanto non si voglia ammettere. La Merkel si tiene lontana da Tripoli e per questo ha subito qualche critica, visto che il ruolo tedesco nella stagione post-bellica si annuncia insignificante. Ma il presidente del Consiglio, nel suo animo, invidia il disimpegno di Berlino. In fondo, non c'è molta differenza fra quello che Berlusconi pensa o dice a mezza bocca (i nostri Tornado che «non spareranno», il dolore per i guai di Gheddafi) e quello che l'alleato Bossi ha dichiarato senza mezzi termini. Il vecchio «status quo», agli occhi del premier e della Lega, aveva vantaggi indiscussi che oggi sono cancellati.

Poi, certo, la politica ha le sue esigenze. A differenza della Germania, l'Italia non può permettersi di stare alla finestra in una crisi che si svolge alle porte di casa e in un'area in cui gli interessi economici da proteggere sono notevoli. E poi c'è la questione drammatica dei clandestini, da cui nasce una situazione quasi ingestibile. Senza che nessuno dei partner europei, né Parigi né Berlino né altri, abbia voglia di muovere un dito.
Dall'incontro di cuore e ragione deriva il basso profilo della posizione italiana, testimoniato dalla riluttanza del presidente del Consiglio a intervenire di persona in Parlamento. Tra i paesi della coalizione, Berlusconi è l'unico leader, il solo capo di un esecutivo a non essere intervenuto in modo ufficiale. Non lo farà nemmeno oggi e domani, lasciando la parola a Frattini e La Russa davanti alle Camere con l'argomento che c'è un Consiglio europeo da preparare.
Con ogni evidenza Berlusconi non vuole legare troppo la sua immagine a una causa in cui crede poco. Non crede che Gheddafi possa essere rovesciato in tempi brevi e non pensa che l'Italia abbia qualcosa da guadagnare da una partecipazione più intensa all'offensiva. Vede i dubbi diffusi: non solo quelli della Lega, ma anche di una parte del mondo cattolico. Quindi la lettura riduttiva che il governo di Roma sta offrendo della risoluzione dell'Onu si giustifica con le contraddizioni della maggioranza.

Ma ora il tempo stringe e i nodi vanno sciolti. Il Parlamento deve esprimersi con un voto e si vedrà se il clima unitario e trasversale che finora ha accompagnato la crisi è in grado di reggere. Per Berlusconi si tratta in primo luogo di impedire una dissociazione della Lega sulle mozioni e l'obiettivo sembra a portata di mano: le «condizioni» poste da Calderoli non sono certo inaccettabili e del resto Bossi non ha interesse a rompere in questa fase (e su un tema delicato come la politica estera).
Peraltro un compromesso sulla regia della Nato sembra delinearsi, grazie anche a Obama. È su questo terreno che il Parlamento può individuare una convergenza. E non è un caso che il presidente della Repubblica ancora ieri sia tornato a insistere, citando la Nato come una «necessità» e stabilendo un parallelo fra la linea italiana e quella di americani e inglesi. È la strada per conquistare e mantenere un credito internazionale, nonostante le esitazioni e i distinguo.

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