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Questo articolo è stato pubblicato il 29 marzo 2011 alle ore 08:42.
L'ultima modifica è del 29 marzo 2011 alle ore 06:39.

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Dopo 17 anni un altro predellino e l'idea di un'eterna transizioneDopo 17 anni un altro predellino e l'idea di un'eterna transizione

Diciassette anni dopo il 28 marzo 1994, giorno della sua prima, clamorosa vittoria elettorale, Silvio Berlusconi è di nuovo salito su un predellino. Di lì ha risposto ai suoi sostenitori, accorsi numerosi davanti al tribunale di Milano. L'uso politico-mediatico del processo (in questo caso Mediatrade, in attesa del super-procedimento sul caso Ruby) rappresenta infatti l'ultimo sviluppo del berlusconismo. Non più l'incessante tentativo di evitare i processi attraverso ogni sorta di cavillo, ma una strategia mista, nella quale c'è posto anche per lo spettacolo di ieri mattina.

Berlusconi continua ad accusare i «giudici comunisti», ma lo fa presentandosi in aula (almeno stavolta è accaduto così) e poi lasciandosi abbracciare dalla folla appena uscito dall'udienza. Non c'è alcuna legittimazione della magistratura in tutto questo, ma anzi un passo avanti verso un contrasto definitivo e profondo. Il nuovo predellino di Milano è funzionale a una battaglia che continua sul piano processuale e politico: due livelli che s'intrecciano senza soste.

In realtà fra il 1994 e il 2011 è trascorsa una lunga stagione, nella quale l'attuale presidente del Consiglio è stato sempre la figura dominante, al governo come all'opposizione. Non a caso alle prossime elezioni voteranno ragazzi che sono nati e cresciuti «in toto» all'interno dell'era berlusconiana.

Tuttavia l'impressione è che il tempo politico non sia passato. Davanti al Palazzo di Giustizia milanese si è svolta una scena che avrebbe potuto aver luogo nel '94 anziché ieri. I toni, gli argomenti e le fobie sono le stesse di allora. E il protagonista naturalmente è la medesima persona. Diciassette anni fa accusava i magistrati di gettargli addosso fango e oggi ripete con precisione anche lessicale le stesse accuse.

Nel frattempo la transizione inaugurata dal crollo di Tangentopoli, e di cui Berlusconi avrebbe dovuto costituire la medicina, è ancora un cantiere aperto. La trasformazione e l'ammodernamento del paese si sviluppano con estenuante lentezza. E l'immagine del premier ritto sul nuovo predellino, impegnato nell'eterno braccio di ferro con i pubblici ministeri, è la fotografia di questo «passato che non passa».

Intorno c'è il mondo che cambia. La politica estera è diventata all'improvviso una sfida cruciale. Ma quale politica estera? La Libia ha dimostrato che l'Italia è piuttosto incerta fra scelte diverse. Irritata verso la Francia di Sarkozy, è sembrato l'altro giorno che la Farnesina volesse inaugurare un'intesa privilegiata con Berlino. Ma ieri lo stesso ministro Frattini si è affrettato a sottolineare che «non esiste alcun asse fra Italia e Germania» (del resto sembra improbabile che Angela Merkel voglia farsi trascinare in una sorta di patto anti-francese). E mentre Frattini precisava, il suo collega dell'Interno, Maroni, dichiarava al «Corriere» che l'unica via per il governo è il rapporto speciale con i tedeschi («sin dall'inizio la Lega era contraria alla partecipazione alla guerra e avevamo chiesto di comportarci come la Germania»).

Sullo sfondo incombe la questione dei migranti a Lampedusa. Come dice Emma Bonino, l'Italia oscilla «tra vittimismo e allarmismo». Anche qui, come sulla Libia, ci sarebbe bisogno della sintesi politica che solo il presidente del Consiglio può garantire. Ma Berlusconi è impegnato con i suoi processi, nel tentativo di trasformarli in una piattaforma politica ed elettorale. Così la frattura fra i due piani delal realtà si allarga.

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