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Questo articolo è stato pubblicato il 31 marzo 2011 alle ore 09:21.

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Gheddafi avanza verso BengasiGheddafi avanza verso Bengasi

BENGASI. Per capire come combattono gli shebab Nouri Founas, 32 anni, mi fa salire sul suo Land Cruise con un lanciatore da 12 colpi di missili Grad. Sul cruscotto sono montati i pulsanti per il lancio. «Nella battaglia di Bin Jawad, prima che le milizie riprendessero Ras Lanuf e Brega, ho esaurito tutta la riserva che avevo: 60 missili. Ma non è bastato. Gheddafi usa l'artiglieria pesante e mentre i miei Grad russi hanno una gittata di 9 chilometri i suoi sono più potenti, con un raggio d'azione di 20 e di 40 chilometri: ieri sparavano ad alzo zero e ci hanno fatto fuori».

Forse non occorreva venire in Cirenaica per scoprire che le guerre si sa come cominciano ma non come continuano (e tanto meno come finiscono). Le milizie del Colonnello incalzano e con loro gli interrogativi. Gheddafi perde uno dei suoi uomini, il ministro degli esteri Mussa Kussa, considerato una figura chiave del regime, fuggito in Gran Bretagna. Si parla di armare i ribelli, di addestrarli e forse non è così remota l'ipotesi di un intervento sul campo. Intanto ieri telefonata del presidente degli Stati Uniti al capo dello Stato Napolitano per esprimere apprezzamento per l'appoggio dell'Italia alla missione in Libia.

Ma la campagna di logoramento con i raid per abbattere il regime, condannato dalla diplomazia nei corridoi londinesi, potrebbe durare ancora e le guerre più si prolungano e meno diventano convincenti. Founas è tornato a Bengasi di sua iniziativa. «Non c'è un comando, andiamo allo sbaraglio, non hanno neppure pensato a distribuire targhette di riconoscimento agli shebab, sto facendo il giro degli ospedali per cercare cinque della mia squadra che ho perso in battaglia e rifornirmi di missili. Davanti, sulla linea del fuoco, la logistica non funziona».

Le milizie gheddafiane, dopo aver intrappolato i ribelli nel deserto della Sirte, si sono di nuovo impadroniti dei terminali petroliferi e minacciano Ajdabiyah: ci sono volute sei notti di bombardamenti francesi e britannici per riconquistarla e in due giorni l'esercito rivoluzionario rischia di perderla. La ritirata è stata più fulminea dell'avanzata: 300 chilometri di affannosa marcia indietro dei ribelli in 24 ore. Ad Ajdabiyah ieri notte si aspettavano non soltanto un attacco da ovest, alle porte delle città, ma anche da sud: le milizie di Gheddafi stanno arrivando dal deserto, un tentativo evidente di infiltrarsi tra le linee e di confondere gli obiettivi ai raid aerei della coalizione internazionale.

Gheddafi è a 200 chilometri da Bengasi. «Se cadesse Ajdabiyah il nostro fronte di difesa è a 50 chilometri ma non credo che si spingeranno fin qui, dovranno passare sui nostri corpi», dice Nouri, alto, magro, con i baffi e una storia interessante: suo nonno è stato il concessionario della Fiat, Gheddafi ha incamerato le proprietà immobiliari di famiglia e lui si è messo a girare il mondo a piedi. «Il mio diario di viaggio, 12 anni tra l'Europa, l'Asia e l'Africa, doveva uscire a Tripoli due settimane fa con un titolo in swahili: "Hakuna Matata", nessun problema». Di problemi qui invece ce ne sono diversi: con la caduta di Ras Lanuf la Cirenaica rivoluzionaria perde un terminale petrolifero e il suo confine storico con la Sirte.

Ad Ajdabiyah il confortevole Afrika Amal, l'hotel dei giornalisti, improvvisamente diventa un fortino assediato dalla confusione degli shebab, mentre all'Uzu di Bengasi hanno piazzato quatto pick up con mitragliatrici per rassicurare le troupe. È qui che ho un appuntamento con lo "sceicco marxista", Idris Tayeb Lamin, un intellettuale e poeta noto per i studi sull'Islam e le simpatie politiche a sinistra. «Fu Gheddafi - racconta Idris - a volermi incontrare più di una volta per fondare una rivista, intitolata "No!" che contrastasse ideologicamente gli islamisti. Io invece scrivevo articoli sulla libertà di opinione e di stampa: irritato mi fece arrestare con una dozzina di persone alla scuola Nasser durante un reading di poesia. Fui condannato a morte e poi all'ergastolo.

In un nuovo processo il mio avvocato difensore, per la sua arringa difensiva, venne incarcerato per quattro anni: così, per colpa di Gheddafi e ironia della sorte, siamo usciti insieme dalla prigione di Tripoli». Idris è uno degli autori della "Carta" presentata a Londra del Consiglio transitorio, ex addetto culturale dell'ambasciata libica in Italia, amico di Giulio Andreotti, rivela che la leadership di Bengasi ha già chiesto da tempo agli americani di essere riforniti di armi: «Magari russe, sono quelle che conosciamo meglio e possiamo fare a meno anche degli addestratori occidentali». Un paradosso, ma l'epilogo di questo regime, che stenta a liquefarsi, forse riserverà altre sorprese.

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