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Questo articolo è stato pubblicato il 02 aprile 2011 alle ore 20:20.
Probabilmente è proprio per evitare che siano denunciate le condizioni di lavoro nei cantieri attorno a Chittagong, specie dopo un articolo del New York Times, che l'accesso ai cantieri è stato interdetto alla stampa. «Non valgono le regole dei paesi occidentali. Sono stufo dei giornalisti, degli ecologisti e degli attivisti delle ong che vengono qui a spiegarci come vivere» dice a muso duro un capo-operaio quando si accorge dell'intrusione nel suo territorio.
I cantieri di Sitakandu costituiscono il maggior centro di demolizioni navali del mondo. Qui viene smantellato circa il 50% delle navi da rottamare di tutte le flotte del pianeta. Un recente rapporto del Financial Express li valuta più convenienti dei concorrenti di almeno il 20-25%. Le demolizioni locali producono una media di 12-20.000 tonnellate di materiale per nave contro le 4-5000 di indiani e pakistani, "rendendo il Bangladesh la scelta preferita come cimitero per navi di media e grande stazza". Secondo Hefazatur Rahman, presidente della Bangladesh Ship Breakers Association (BSBA), i materiali ferrosi ricavati dalla demolizione coprono l'80% di tutto il fabbisogno nazionale e il 90% di quello dei cantieri che costruiscono nuove navi con lastre di metallo vampirizzate da altri scafi. Senza contare l'utilizzo di oli e lubrificanti di recupero e le attività parallele dei rivenditori di arredi e attrezzature navali lungo la strada costiera per Chittagong. Secondo uno studio della stessa BSBA, i cantieri di demolizioni forniscono materiale ad altri 29 settori produttivi. Un'industria che dà lavoro a un numero di uomini variabile da 150.000 a 250.000 unità.
Di questi uomini e ragazzi, ne muoiono parecchi. Secondo le cifre della Bangladesh Environmental Lawyer's Association (BELA), probabilmente approssimate per difetto, dal marzo 2009 sono stati 36. Dal 1998 il totale è di 122. L'ultimo incidente si è verificato il 18 gennaio scorso, quando un'esplosione ha ucciso quattro operai e ne ha feriti altri otto.
Come ha denunciato ad Asia Times Online Syed Sultan Uddin Ahmmed, vice direttore esecutivo del Bangladesh Institute of Labour Studies, molti degli scafi destinati alla demolizione, infatti, sono ancora carichi di carburante o saturi di materiali tossici, che li rendono vere e proprie bombe galleggianti (o spiaggiate), con conseguenti vittime umane e danni ambientali in caso di detonazione. Senza contare, come rilevato in uno studio del BELA, che gli operai dei cantieri del Bangladesh operano in condizioni e con attrezzature del tutto inadeguate, il che aumenta il rischio in modo esponenziale. Per ridurre il problema basterebbe applicare l'accordo siglato a Hong Kong nel maggio 2009 alla conferenza dell'International Maritime Organization. Fu stabilito che le navi destinate alla demolizione debbano essere bonificate prima di raggiungere la destinazione finale. Ma perché l'accordo sia messo in pratica bisognerà attendere il 2015.
Prima di allora, nei prossimi tre anni, i cantieri di Sitakandu attendono l'arrivo di una flotta di circa 2000 navi destinate alla demolizione in ottemperanza alla norma dell'unione Europea che prevede lo smantellamento dei tanker a carena singola.
Dopo l'incidente del gennaio scorso, tuttavia, l'Alta Corte del Bangladesh ha richiesto al governo di bloccare i lavori nei cantieri di demolizione finché non siano verificate le condizioni di sicurezza. La BSBA si è opposta affermando che i cantieri dell'associazione hanno sufficienti capacità umane e logistiche per eseguire i lavori senza rischi. Poco dopo, l'Alta Corte sembra aver corretto la propria posizione, permettendo l'arrivo di altre navi da demolire purché i cantieri dimostrino tali capacità. Un cambiamento di rotta tracciato dal primo ministro Sheikh Hasina, che ha sostenuto l'importanza dei cantieri di demolizione per l'economia nazionale, ponendo la loro attività sotto il controllo del Ministero dell'industria. Una sorta di nulla osta corretto solo dall'invito a "rispettare le convenzioni e le leggi sull'impatto ambientale". Da quell'industria, del resto, deriva un notevole flusso di denaro per le casse dello stato. Destinato ad aumentare con l'approdo delle petroliere bandite dalla UE.
Con sollievo della BSBA il dibattito sui cantieri è stato oscurato dall'ultimo psicodramma nazionale: il contrasto tra il governo e Muhammad Yunus, il pioniere del microcredito, Nobel per la pace nel 2006. La signora Sheikh Hasina lo ha accusato di evadere le tasse, di "succhiare il sangue dei poveri in nome della lotta alla povertà", di trattare il popolo del Bangladesh "come cavie". Yunus, dal canto suo, aveva lanciato la proposta di una "totale castrazione" dei due partiti dominanti: il laico e liberale Awami League di Sheikh Hasina e il pro-islamico Bangladesh Nationalist Party della sua acerrima rivale, Khaleda Zi - le due donne e le loro famiglie hanno dominato la scena politica del Bangladesh negli ultimi trent'anni, tanto che sono state soprannominate "le due Begum". La Banca Centrale del Bangladesh ha poi destituito Yunus dalla carica d'amministratore delegato della Grameen (l'istituzione di mircrofinanza più nota al mondo, fondata da Yunus e controllata dal governo al 25%). A questo punto a Yunus non resta che trattare, come ha dichiarato lui stesso all'agenzia Bloomberg. Comunque si risolva la vicenda, in Bangladesh è difficile credere che "l'uomo è più grande dell'avversità".
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