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Questo articolo è stato pubblicato il 06 aprile 2011 alle ore 10:05.

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Un seggio al Cairo (Epa)Un seggio al Cairo (Epa)

ll referendum ha consegnato il futuro del paese ai Fratelli Musulmani? No, il referendum sulle modifiche alla Costituzione ha aperto il paese alla politica. Parola di Sandmonkey, uno dei più noti e attivi blogger anticonformisti e riformisti egiziani (Twitter@sandmonkey). Anche se il movimento che ha organizzato la rivoluzione del 25 gennaio è uscito sconfitto dal referendum del 19 marzo, interpellato dal Il sole 24 ore in line, Sandmonkey riesce solo a vedere i lati positivi della sconfitta del no e prospetta un futuro dove il meglio deve ancora venire.

«Questo referendum è uno spaccato dell'Egitto. Ma uno spaccato che si può tradurre in numeri, anzi in statistiche. Per la prima volta nella storia egiziana, sono disponibili delle statistiche nazionali che tracciano l'orientamento ideologico e politico dell'elettorato nazionale, distretto per distretto in ogni città egiziana».Secondo i dati infatti, si è votato più nelle zone urbane del paese. I no hanno raggiunto i picchi nelle aree con il tasso di alfabetizzazione e di occupazione più alto. Al Cairo, i no sono stati il 39,48%; ad Alessandria il 32.88%. Nelle zone non sviluppate come Marsa Matrough, a 524 km dal Cairo, il no ha raggiunto il 7,59%; nel Fayum, l' oasi naturale più grande di tutto l'Egitto a 103 km dalla capitale egiziana, il 9,8%. «Quello delle statistiche elettorali» sostiene Sandmonkey è un campo del tutto inesplorato e tutto da valorizzare. Il prossimo passo riguarderà il perfezionamento di un una metodologia sondaggistica in grado di mappare i distretti prima delle elezioni».

Sempre parlando di numeri, poiché a livello nazionale ha votato il 41 %, (dei 45 milioni di aventi diritto, si sono recati alle urne 18 milioni 326.000 persone) «c'è un potenziale bacino elettorale che non ha votato e che deve essere intercettato e corteggiato con la politica porta a porta. E bisogna parlare di argomenti seri come l'economia. In un paese dove il 40% della popolazione vive con 2 dollari al giorno, è inevitabile che la maggioranza della gente sia interessata a soluzioni che riguardano il loro benessere. In queste settimane di campagna elettorale, invece di parlare di cose pratiche, ci siamo dedicati ad argomenti che riguardano una fetta minima dell'elettorato. Siamo caduti nella trappola dei militari e della fratellanza musulmana. Loro avevano un obiettivo sul quale si sono focalizzati come fanno i veri partiti. Noi ci siamo distratti parlando di libertà dei prigionieri politici. Per carità, è un argomento importante, ma riguarda 50, 100, 1000, 10.000 persone. Il benessere riguarda tutti. Invece di fare appelli per la loro liberazione dovevamo fare una campagna per assicurare un minimo sindacale dignitoso.Questo referendum ci ha fatto capire che dobbiamo essere più intelligenti nello smarcarci dai concorrenti e dagli oppositori. In piazza c'eravamo noi giovani. I crediti sono nostri. In queste settimane ho visto che i simboli della rivoluzione sono diventati un franchise di chi non era a Thahir. Vedo gli sticker del 25 gennaio su un sacco di macchine. Noi ci abbiamo messo la faccia, quelli che si sono smarcati da noi si stanno prendendo i meriti. Bisogna fare di più a livello organizzativo. I social network non bastano. Dobbiamo strutturarci con i vari movimenti libertari e formare un blocco politico unico. E, considerando che non disponiamo di un budget, dobbiamo iniziare una seria campagna di fund raising. I soldi li raccoglieremo organizzando festival, dibattiti, concerti, tavole rotonde. Chi vuole venire pagherà un biglietto. Poi chiederemo soldi agli egiziani che vivono all'estero. Ma è chiaro che dovremo essere convincenti. Competitivi. Credibili. Useremo tutti i canali. Anche quelli classici della politica come l'esposizione dei fallimenti dei nostri avversari. Ma anche mettere on line e dare alla stampa estera i bilanci dei partiti, dei politici e dei loro finanziatori».

Un capitolo a parte Sandmonkey, lo riserva alla fratellanza musulmana e ai salafiti. «Non possiamo non partire dal presupposto che la società egiziana sia molto religiosa e che molta gente segue quasi alla lettera quello che viene detto dalle figure di riferimento religioso. La gente si affida a loro per le faccende che riguardano gli aspetti pratici della vita. Vista la loro influenza, quando è possibile, dobbiamo incassare il consenso e l'appoggio dei preti e degli imam indipendenti. Quelli conservatori, invece, dobbiamo metterli con le spalle al muro. Sono più deboli delle percezioni di forza che trasmettano. Bisogna diffondere la visione dell'Egitto che hanno nelle loro menti. E non ci vuole tanto. Basta vedere il loro record di proposte nella scorsa legislatura: censura di libri e di video musicali. Stanno facendo quello che Hamas fa a Gaza: niente musica, shishia, concerti, media liberi, tante intimidazioni e paure.Bisogna fare appelli all'unità del paese, partecipare alle manifestazioni dove cristiani e musulmani partecipano insieme in nome di un nazionalismo laico. E se i salafiti ci chiamano infedeli, risponderemo a loro chiamandoli Talebani e metteremo on line le foto delle ragazze sfigurate con l'acido per non mettere il velo».

Ma le dinamiche che il post referendum può generare nella cultura politica egiziana possono paradossalmente vanificare i propositi della rivoluzione del 25 gennaio. Dopo le prossime elezioni parlamentari ( forse in giugno) e quelle presidenziali ( forse in dicembre), una commissione composta da membri del nuovo parlamento, riscriverà la Costituzione che sarà accettata o rifiutata da un'altro referendum popolare. Se vincono i no, la costituzione adottata nel 1971 verrà reintrodotta. Ecco la politica del gattopardo arabo.

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