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Questo articolo è stato pubblicato il 09 aprile 2011 alle ore 10:50.

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«Il sistema bancario ha resistito alla crisi piuttosto bene: una esposizione limitata agli asset tossici, l'assenza di una bolla immobiliare e supervisione e regolamentazione efficaci». Così scriveva un anno fa il Fondo monetario internazionale del Portogallo. Come si è ridotto quel Paese a chiedere soldi con il cappello in mano? La parabola portoghese è un monito per altri: la Spagna certo, ma anche l'Italia.

In Irlanda e Spagna i sistemi bancari hanno rischiato il crollo; i problemi del Portogallo sono in parte diversi, e hanno una causa semplicissima: la crescita bassa da quindici anni, e i veti incrociati su riforme strutturali necessarie per uscire dalle sabbie mobili.

Ma perché il Portogallo non è cresciuto? Esso ha sofferto tutti gli effetti negativi dell'adozione dell'euro, ingigantiti da una economia sclerotizzata. L'abbassamento dei tassi d'interesse ha favorito un fortissimo indebitamento delle famiglie e delle aziende, tra i più alti d'Europa. La politica fiscale non ha mai tentato seriamente di ridurre il disavanzo pubblico, come invece hanno tentato in alcuni anni persino i greci; all'alto debito dei privati si è aggiunto dunque quello pubblico.

Altri Paesi, come l'Olanda, hanno una combinazione di debito privato e pubblico non dissimile, ma stanno sopravvivendo molto meglio. Ciò che ha scavato la fossa al Portogallo è stata la continua perdita di competitività. Questa può diminuire perché la produttività sale poco, o il costo del lavoro sale tanto. In Portogallo sono successe entrambe le cose, per tanti anni di fila. Un fattore importante sono stati i forti e ingiustificati aumenti salariali nel settore pubblico, che in Portogallo ancor più che altrove si riversano poi sul settore privato.

Con la recessione, i mercati si sono resi conto che un'economia così poco competitiva non sarebbe stata in grado di ripagare i tanti debiti, privati e pubblici. Alla fine è rimasto coinvolto anche un sistema bancario fino a poco fa considerato sano: esso era esposto pesantemente a famiglie e imprese, ma aveva anche dovuto acquistare titoli pubblici per evitare il default del Governo.

Ci sono tre lezioni da trarre. Ciò che il Portogallo avrebbe dovuto fare era noto da tempo: riformare una economia e una società vecchie, dal mercato del lavoro all'amministrazione pubblica, dal sistema educativo alle politiche della concorrenza. La crisi ha solo esasperato una situazione già critica.

La seconda lezione è che alcuni dei sintomi portoghesi sono comuni ad altri Paesi considerati solidi, come l'Italia. Sistema finanziario sostanzialmente sano (almeno così si dice), ma bassa crescita del Pil e della produttività da quindici anni, perdita di competitività e veti incrociati sulle riforme: suona familiare? Rispetto al Portogallo, l'Italia ha un debito pubblico molto più alto, ma meno debiti privati e un più basso disavanzo pubblico. Speriamo che basti.

La terza lezione è per l'immediato. Un Paese piccolo e marginale come il Portogallo era probabilmente l'occasione migliore per mandare un messaggio chiaro. Chi sbaglia per tanti anni di seguito, paghi: il contribuente europeo non è tenuto a riparare agli errori pervicaci di politici ed elettori. Salvarli sempre e comunque serve solo a ritardare la soluzione, come dimostra il fatto che ancora poche settimane fa, a un passo dal baratro, preferirono far cadere il Governo piuttosto che attuare dei tagli di spesa inevitabili. In altre parole, era l'occasione giusta per rompere il tabù della ristrutturazione del debito sovrano, e consentire un fallimento parziale del Portogallo.

Ma il timore di un contagio alla Spagna è troppo forte. Quest'ultima ha molti dei sintomi portoghesi - bassa produttività e competitività, alto indebitamento di famiglie e imprese - più uno: un sistema bancario in grave difficoltà, a causa della bolla immobiliare che il Portogallo non ha avuto. D'altro canto, la Spagna ha fatto di più sul fronte dei conti pubblici. I politici spagnoli ed europei dicono quello che diremmo tutti noi al loro posto: è semplicemente impensabile che la Spagna debba seguire Grecia, Irlanda e Portogallo. Fino a una settimana fa quelli portoghesi dicevano esattamente lo stesso del loro Paese.

È dunque irrealistico pensare che Europa e Fmi lascino il Portogallo al suo destino. Fortunatamente, i Paesi nordici insisteranno su condizioni molto dure, quasi punitive per un prestito. Questa è la strategia giusta, nell'interesse dello stesso Portogallo: la speranza è che fornisca l'impulso per quelle riforme che Lisbona finora non ha avuto la capacità di attuare. In caso contrario saranno stati 80 miliardi buttati via.

roberto.perotti@unibocconi.it

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